Il riesplodere della guerra tra Armenia e Azerbaigian attorno allo status dell’enclave del Nagorno-Karabakh rappresenta un serissimo grattacapo per Mosca non solo per via della destabilizzazione che essa comporta in un’area cruciale per gli interessi strategici russi, com’è appunto quella caucasica. Il conflitto è osservato con crescente inquietudine dal Cremlino anche perché sembra sempre più inserirsi in un’offensiva multiforme, la cui regia va ricercata in primo luogo a Washington, che si sta manifestando in parallelo sui fronti di Bielorussia e Kirghizistan.

Sulle origini immediate del riesplodere delle ostilità a fine settembre in Caucaso c’è poca o nessuna chiarezza. Nella maggior parte dei casi, media e osservatori attribuiscono all’Azerbaigian l’inizio delle operazioni militari, con l’obiettivo di riportare sotto il proprio controllo il territorio del Nagorno-Karabakh, di fatto autonomo, anche se non riconosciuto da nessun paese, e auto-governato dalla maggioranza etnica armena. Questa interpretazione è supportata dal fatto che la Turchia sta appoggiando in maniera massiccia lo sforzo bellico di Baku. L’iniziativa turco-azera sarebbe dunque un ulteriore tentativo di promuovere le ambizioni “neo-ottomane” di Erdogan, soprattutto se in competizione con la Russia e l’Occidente.

 

D’altro canto, come sostiene una parte minoritaria di analisti, non è da escludere una provocazione armena, da collegare ai mutamenti politici che questo paese ha attraversato nella primavera del 2018. Da allora, cioè, il governo del primo ministro Nikol Pashinyan, salito al potere sull’onda di una cosa molto simile a una “rivoluzione colorata”, ha prudentemente cercato di risintonizzare verso occidente una politica estera dominata dall’alleanza con Mosca.

L’Armenia avrebbe dunque alimentato il conflitto con l’Azerbaigian sostanzialmente con l’intento di coinvolgere la Russia, obbligata a intervenire al fianco di Yerevan in caso di necessità, come previsto da un trattato di “difesa collettiva” (CSTO) di cui entrambi i paesi fanno parte. L’obiettivo sarebbe quello di imbrigliare il Cremlino nel pantano caucasico e di creare un nuovo elemento di conflitto nei rapporti con la Turchia.

Non è in ogni caso necessario pensare a una provocazione armena per avere la conferma che la guerra in atto per il Nagorno-Karabakh viene vista da molti in Occidente e, soprattutto, da Washington come un fattore positivo perché, in caso di aggravamento, costringerebbe la Russia a prendere in qualsiasi caso una decisione scomoda. Ciò metterebbe inevitabilmente a repentaglio gli equilibri nel Caucaso e la partnership con Ankara, già in pericolo a causa degli eventi in Siria e in Libia.

Un eventuale intervento russo a fianco dell’Armenia porterebbe proprio a quest’ultimo risultato e alienerebbe allo stesso tempo l’Azerbaigian, a cui Mosca vende armi nel quadro di una relazione decisamente amichevole, nonostante l’alleanza con l’Armenia. Un’astensione dal conflitto a fronte di una richiesta da parte di Yerevan rischierebbe al contrario di accelerare l’avvicinamento dell’Armenia all’Occidente, così come l’emergere di frizioni con l’Iran, a sua volta schierato moderatamente contro l’Azerbaigian nella guerra in corso.

Un altro nodo delicato per Mosca in relazione alla crisi armeno-azera è l’arrivo sul fronte caucasico di un numero imprecisato di combattenti jihadisti che, secondo alcuni resoconti giornalistici, la Turchia avrebbe trasferito dalla Siria. Su queste forze Ankara ha basato la sua politica siriana, ma il fondamentalismo islamico è da oltre tre decenni anche uno strumento della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Europa e in Medio Oriente.

La presenza di un sottobosco jihadista nell’immediata periferia russa è un incubo ricorrente per il Cremlino, come testimoniano le due sanguinosissime guerre combattute in Cecenia, e buona parte della strategia mediorientale di Putin, inclusa quella relativa alla Siria, ha precisamente come obiettivo quello di impedire l’afflusso di questi guerriglieri telecomandati da governi ostili verso i propri confini.

Martedì, il numero uno dei servizi di intelligence russi operanti all’estero, Sergei Naryshkin, ha infatti avvertito che il conflitto tra Armenia e Azerbaigian ha attirato “centinaia e addirittura migliaia di [combattenti] radicalizzati dal Medio Oriente”, con il rischio che il Caucaso meridionale diventi “una base di lancio per le organizzazioni terroristiche internazionali”. In un’intervista all’agenzia russa RIA, anche il presidente siriano Assad ha confermato il movimento di jihadisti dal suo paese verso il Caucaso, per poi accusare Erdogan di essere il “principale istigatore” del conflitto in Nagorno-Karabakh.

Alla luce di queste implicazioni, la crisi caucasica può essere collegata a quella che dall’inizio di agosto sta interessando la Bielorussia. Sia pure in circostanze molto diverse, l’ondata di proteste popolari contro il presidente Lukashenko, accusato di avere manipolato le elezioni per ottenere un nuovo mandato, viene sfruttata dall’Occidente per forzare una “transizione democratica” che metta al potere una delle auto-proclamate leader dell’opposizione ferocemente anti-russe. Come il Caucaso, anche la Bielorussia è un tassello fondamentale per la sicurezza russa, da collegare in questo caso alla necessità di impedire il progressivo accerchiamento, per mezzo della NATO, con l’attrazione dei paesi dell’ex blocco sovietico nell’orbita occidentale.

Uno degli strumenti con cui soprattutto gli Stati Uniti hanno favorito il tentativo di “rivoluzione colorata” in Bielorussia è il finanziamento e il sostegno garantiti a “organizzazioni non governative” ufficialmente impegnate nella promozione della società civile e delle pratiche della democrazia liberale. In realtà, com’è noto, si tratta di organi di facciata che i governi e i servizi segreti occidentali utilizzano per destabilizzare regimi sgraditi, spesso facendo leva su frustrazioni più che giustificate, dietro a slogan di democrazia e diritti umani.

Questa caratteristica è comune anche al terzo fronte caldo della “guerra ibrida” in corso contro la Russia, vale a dire la repubblica post-sovietica del Kirghizistan, in Asia centrale. Qui, i risultati delle elezioni parlamentari di domenica sono sfociate in proteste che hanno assunto in fretta un carattere violento. La situazione appare caotica, tanto che i manifestanti hanno addirittura dato fuoco alla sede del governo nella capitale, Bishkek, e liberato dal carcere l’ex presidente, Almazbek Atambayev, detenuto con l’accusa di corruzione.

Il motivo delle dimostrazioni sono i possibili brogli che avrebbero impedito ad alcuni partiti dell’opposizione di superare la soglia di sbarramento del 7% per entrare in parlamento. A spartirsi la maggioranza dei seggi sono state invece formazioni vicine al presidente, Sooronbay Jeenbekov. Dopo alcuni giorni di scontri, però, la commissione elettorale ha acconsentito ad annullare le elezioni del 4 ottobre, mentre l’opposizione ha annunciato di avere insediato propri uomini alla guida del governo e di alcuni ministeri.

Gli scenari kirghizi appaiono ancora molto fluidi e nei prossimi giorni sarà forse più chiaro il futuro di un paese che ha un fragile sistema politico democratico ed è già stato interessato da due “rivoluzioni” nel 2005 e nel 2010. A sollevare forti sospetti sulla genuinità della rivolta in atto è il tempismo degli eventi, assieme ai precedenti e al rilievo strategico del Kirghizistan.

La Russia è presente con una base militare in questo paese che, come l’Armenia, fa parte del CSTO. Fino a pochi anni fa, anche gli Stati Uniti avevano qui una base aerea, utilizzata per le necessità logistiche dell’occupazione del vicino Afghanistan. Lo schema occidentale sembra così anche in Kirghizistan quello consolidato in altri paesi per provocare o, come minino, sfruttare il caos e favorire un cambio di regime oppure costringere il Cremlino a intervenire, con tutte le conseguenze del caso in termini di costi politici, militari e strategici.

Gli eventi di queste settimane disegnano perciò un quadro fatto di elementi destabilizzanti lungo i fronti meridionale, occidentale e orientale della Russia, in paesi e regioni considerate naturali sfere di influenza di Mosca. Che la concomitanza delle crisi in Bielorussia, Caucaso e Kirghizistan sia casuale è improbabile, ma rappresenta piuttosto un inasprirsi dell’offensiva anti-russa, confermata anche dal rilancio di questa settimana delle accuse sul caso Navalny. Nel corso di un vertice dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, martedì Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti sono tornati infatti alla carica per chiedere a Putin di fare chiarezza sul molto presunto avvelenamento del “dissidente” russo.

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