Le proteste contro il regime di Alexander Lukashenko in Bielorussia avrebbero dovuto raggiungere il culmine questa settimana con uno sciopero generale teoricamente in grado di assestare la spallata definitiva dopo undici settimane di mobilitazione, seguite alle controverse elezioni presidenziali di agosto. Il successo dell’iniziativa proclamata dai leader dell’opposizione filo-occidentale non sembra essere stato tuttavia quello auspicato, ma le ragioni non sono da ricondurre soltanto ai metodi repressivi e intimidatori del governo e delle forze di sicurezza di Minsk.

L’autoproclamata numero uno della campagna contro Lukashenko, cioè la principale candidata alla sua successione Sviatlana Tsikhanouskaya, aveva lanciato un paio di settimane fa un ultimatum perentorio al presidente. Entro il 25 ottobre, l’uomo forte di Minsk avrebbe dovuto dimettersi e porre fine al “terrore” scatenato contro i manifestanti oppure prepararsi a fronteggiare uno sciopero generale e la paralisi dell’economia dell’ex repubblica sovietica. Il comunicato della Tsikhanouskaya, da tempo fuggita in Lituania, prospettava una chiusura totale a partire dal settore nevralgico del sistema bielorusso, ovvero le grandi fabbriche controllate in larga misura dallo stato. Inoltre, le dimostrazioni pacifiche sarebbero tornate a invadere le strade della capitale e delle altre città della Bielorussia.

Davanti allo scontato rifiuto di Lukashenko di dimettersi, una nuova protesta è in effetti andata in scena domenica con una partecipazione significativa, secondo alcune stime pari ad almeno 100 mila persone nella sola Minsk. Le forze del regime hanno a loro volta risposto ancora una volta in maniera molto dura. Gli arresti sono stati più di 500, portando il numero totale dei fermati dal 9 di agosto a circa 16 mila.

Coloro che hanno preso parte sia alle manifestazioni anti-Lukashenko sia soprattutto allo sciopero sono sembrati essere però in gran parte studenti e appartenenti alle classi medie o medio-alte. Le stesse proteste, a detta anche dei media occidentali, avrebbero perso l’intensità delle scorse settimane. Un certo senso di rassegnazione prevale ormai in molti di questi ambienti che si ritrovano a fare i conti con il consolidamento del regime, grazie in primo luogo all’appoggio garantito dal governo russo.

Secondo il racconto degli eventi di questi giorni fatto dalla Reuters, una certa mobilitazione si sarebbe registrata nelle scuole e nelle università bielorusse, così come, ad esempio, in una compagnia di telecomunicazioni della capitale. In modo cruciale, tuttavia, la stessa agenzia di stampa, non esattamente bendisposta verso Minsk e Mosca, ha ammesso che “l’appello allo sciopero [generale] non è per ora riuscito a fermare le attività delle aziende statali” del paese. Secondo il britannico Guardian, la partecipazione allo sciopero degli operai che lavorano in queste fabbriche è stata tutt’al più sporadica o di breve durata, ma praticamente “nessuno si è rifiutato di lavorare”. Allo stesso modo, dopo le ultime manifestazioni di protesta, non si sono registrati blocchi stradali o altri problemi per il traffico della capitale.

Notizie della partecipazione allo sciopero di numerosi lavoratori delle ferrovie e di quelli di un’importante fabbrica di fertilizzanti sono in realtà circolate, ma la fonte è da prendere quanto meno con le molle. A diffonderle è stato infatti il canale Telegram NEXTA, operato da un blogger bielorusso allineato all’opposizione con l’appoggio di una fondazione polacca finanziata dal governo di estrema destra di Varsavia, al centro delle trame estere anti-Lukashenko e ben poco interessato alle aspirazioni democratiche della popolazione bielorussa.

Senza la mobilitazione della “working-class” bielorussa e i conseguenti contraccolpi economici, è evidente che le possibilità dell’opposizione sostenuta dall’Occidente di rovesciare Lukashenko e il suo governo sono quasi inesistenti. Ad agosto e a inizio settembre, un’ondata di scioperi aveva peraltro attraversato la Bielorussia in parallelo alle proteste di piazza, tanto da portare il paese sull’orlo del disastro economico. Da allora, l’attivismo registrato nelle fabbriche è venuto decisamente meno, se non sparito del tutto. Nello spegnere gli entusiasmi, un fattore è stato senza dubbio il pugno di ferro di Lukashenko, chiaramente consapevole dei pericoli per il suo regime provenienti dalle grandi fabbriche sotto il controllo dello stato.

La leader dell’opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya ha parlato martedì della mancata mobilitazione degli operai bielorussi, giustificandola con la “pressione colossale” esercitata dalle autorità su quanti intendevano scioperare. Oltre e forse ancora di più delle “pressioni” del regime ha influito lo sconforto e la presa di coscienza che la battaglia contro Lukashenko è guidata da forze politiche e sociali i cui obiettivi non coincidono con quelli dei lavoratori.

L’essenza degli eventi che da quasi tre mesi stanno interessando la Bielorussia è in altre parole da ricondurre alla pratica consolidata delle “rivoluzioni colorate”, promosse e finanziate a suon di dollari e di euro dall’Occidente. Al di là dell’indiscutibile carattere autoritario del regime di Lukashenko, l’interesse dei governi europei e degli Stati Uniti, così come di improvvisati leader indigeni come Sviatlana Tsikhanouskaya, è di riorientare strategicamente verso Occidente un paese nell’orbita di Mosca.

Per gli oppositori interni di Lukashenko, poi, in ballo ci sono occasioni altamente redditizie derivanti dall’accesso alle stanze del potere politico ed economico. Da ciò deriva una prospettiva sostanzialmente neo-liberista, nascosta dietro alla retorica delle riforme democratiche, che, come si rendono conto le classi più oppresse della società bielorussa, comporterebbe misure radicali di austerity e privatizzazioni selvagge, vale a dire sacrifici ancora più pesanti di quelli che dovrebbero spingerli a prendere parte alle proteste in corso.

Gli esempi del “cambiamento democratico” prodotto dall’appoggio occidentale sono d’altra parte molteplici e quasi tutti hanno comportato sofferenze e devastazione sociale. Che la Tsikhanouskaya e i suoi alleati dell’opposizione coordinino quanto meno le loro mosse con i governi occidentali, ma anche con quelli di Polonia e dei paesi baltici, è ormai chiaro a chiunque, visti anche i loro numerosi incontri con capi di governo e ministri degli Esteri di svariati paesi europei in queste settimane. È probabile anzi che la riuscita dello sciopero generale proclamato per questa settimana sia un ultimo banco di prova delle potenzialità della leadership di Sviatlana Tsikhanouskaya, dopo le recenti misure punitive adottate da Bruxelles e Washington contro alcuni esponenti della cerchia di Lukashenko.

A Minsk, in ogni caso, sembra esserci un relativo senso di sicurezza all’interno del regime, anche se restano forti preoccupazioni per la possibilità che le proteste sfuggano di mano. Lukashenko ha infatti alzato i toni negli ultimi giorni, minacciando apertamente di attuare iniziative ancora più repressive per pacificare il paese. Uguale apprensione circola anche al Cremlino, dove la pazienza nei confronti del presidente bielorusso appare vicina al limite.

Al momento, Putin non ha alternative a Lukashenko, visto che un qualsiasi cedimento si tradurrebbe quasi certamente in un regime ostile agli interessi di Mosca. Oltre alla questione strategica, cioè il pericolo di ritrovarsi la NATO ancora più vicina ai propri confini, in gioco ci sono forti interessi economici, essendo la Bielorussia un importante fornitore per vari settori industriali russi e una via di transito cruciale del gas naturale diretto verso occidente. La visita di giovedì scorso a Minsk del capo dell’intelligence estera russa, Sergey Naryshkin, dimostra le inquietudini del Cremlino e, assieme, ribadisce il sostegno a Luhaskenko e la collaborazione tra i due alleati nella gestione della crisi.

Se la maggior parte degli osservatori concorda nel ritenere che il presidente bielorusso finirà per restare al suo posto, la campagna occidentale di destabilizzazione continuerà in un modo o nell’altro, in attesa di una nuova occasione per penetrare ancora di più in un paese profondamente legato alla Russia e, oltretutto, destinatario da alcuni anno di ingenti investimenti cinesi.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy