Se i sondaggi sull’esito delle presidenziali americane del 3 novembre prossimo danno in gran parte come favorito il candidato democratico Joe Biden, la situazione della corsa alla presidenza potrebbe essere in realtà più equilibrata di quello che appare a prima vista. Trump, secondo alcuni osservatori, ha infatti ancora alcune carte importanti a sua disposizione per ribaltare i pronostici. Ciò che potrebbe determinare il risultato finale sono però soprattutto alcuni fattori che poco o nulla hanno a che vedere con le solite dinamiche elettorali, quanto piuttosto con una serie di dispute e di manovre inquietanti, la cui regia è da ricercare alla Casa Bianca.

Il problema più discusso e controverso in questi giorni è il voto per posta, a cui un numero record di americani sta ricorrendo per evitare il rischio di contagio. Fino a giovedì sono stati più di 80 milioni gli elettori che hanno già votato, di persona nei seggi che permettono di farlo anticipatamente o appunto per posta. Questo numero, a meno di una settimana dal vero e proprio election day, rappresenta quasi il 60% dell’affluenza complessiva registrata nelle presidenziali del 2016.

A fronte di un così massiccio ricorso all’invio delle schede elettorali per posta si riscontrano da un lato pesanti ritardi nella consegna di queste ultime agli addetti allo scrutinio e, dall’altro, un tentativo da parte del Partito Repubblicano di ostacolare il conteggio dei voti a distanza. Questi sforzi si traducono in numerose cause legali che hanno l’obiettivo di escludere le schede spedite per posta che arriveranno a destinazione dopo il 3 novembre e sono la logica conseguenza delle denunce senza fondamento di Trump per possibili frodi collegate a questa modalità di espressione del consenso popolare.

La ragione di questa battaglia di Trump e dei repubblicani è presto spiegata. Tutti i dati indicano che sono gli elettori orientati a votare per il Partito Democratico a preferire il voto a distanza, mentre tra quelli repubblicani prevale la decisione di presentarsi di persona ai seggi. Nei venti stati che mettono a disposizione i dati sull’affiliazione degli elettori risulta infatti che 18,2 milioni registrati come democratici hanno già espresso il loro voto, contro 11,5 registrati come repubblicani.

Svariate cause legali sono dunque in corso per stabilire i tempi di conteggio dei voti. Qualche giorno fa, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha consegnato una vittoria ai repubblicani, stabilendo che nel Wisconsin saranno annullate tutte le schede ricevute dopo il 3 di novembre. Ciò potrebbe falsare in modo decisivo i risultati finali, soprattutto se la sentenza dovesse essere replicata in altri stati. Un istituto di ricerca americano ha rivelato mercoledì che delle 92 milioni di schede inviate agli elettori che ne hanno fatto richiesta per votare per posta, ben 42 milioni non sono ancora arrivate agli addetti allo scrutinio.

Un certo numero di questi elettori potrebbe in realtà aver deciso alla fine di recarsi di persona ai seggi, ma da considerare ci sono anche le manovre che il capo del servizio postale americano (USPS), Louis DeJoy, che è anche uno dei principali donatori della campagna elettorale di Trump, sta attuando da mesi per boicottare l’agenzia che dirige. Riduzione di fondi e direttive controproducenti sono gli strumenti che il “Postmaster General” degli Stati Uniti sta usando per rallentare le consegne di schede elettorali, nonostante il recente intervento di alcuni tribunali per cercare di garantirne la puntualità.

Questa strategia è con ogni probabilità coordinata con la Casa Bianca e potrebbe servire a Trump per chiedere una fine anticipata del conteggio dei voti dopo la chiusura delle urne, senza cioè attendere l’arrivo di tutte le schede inviate per posta e quasi certamente favorevoli ai democratici. In realtà, la stessa Corte Suprema mercoledì ha ratificato la possibilità di continuare a contare i voti espressi a distanza in Pennsylvania e in North Carolina, rispettivamente dopo tre e nove giorni dal 3 novembre, ma la situazione appare estremamente fluida. Giovedì, infatti, un tribunale federale d’appello ha dichiarato illegali le preferenze che arriveranno dopo l’election day in Minnesota, mettendo a rischio il voto di quasi 400 mila elettori dello stato. Anche quest’ultima causa potrebbe finire davanti alla Corte Suprema.

Battaglie legali sono ancora in corso in altri stati e i giudici conservatori della Corte hanno fatto sapere di essere pronti a intervenire sulla questione anche dopo la chiusura delle urne. La base legale di nuove eventuali decisioni anti-democratiche sarebbe la sentenza che nel 2000 consegnò la presidenza a George W. Bush dopo lo stop ordinato al riconteggio delle schede elettorali in Florida che avrebbe quasi certamente decretato la vittoria di Al Gore.

In parallelo al tentativo di screditare il voto per posta e alla denuncia di fantomatici brogli, con l’appoggio di una Corte Suprema dove si è appena consolidata una maggioranza ultra-conservatrice grazie alla nomina della giudice Amy Conet Barrett, Trump minaccia di mobilitare a proprio favore attivisti e milizie di estrema destra. Il pericolo è in questo senso molto concreto, come dimostrano tra l’altro i complotti recentemente scoperti dall’FBI, organizzati da ambienti dell’ultra destra per rapire e giustiziare i governatori democratici di Michigan, Virginia e Ohio e seminare il caos il giorno delle elezioni.

Anche in questo caso, tribunali e autorità di polizia sembrano spesso essere pronti ad assistere Trump e i suoi piani eversivi. In Michigan, ad esempio, questa settimana un giudice ha bocciato l’ordine del procuratore generale dello stato che proibiva agli elettori di avvicinarsi ai seggi con un’arma al seguito. Prima ancora del verdetto, molti uffici di polizia e sceriffi si erano apertamente rifiutati di eseguire l’ordine, mostrando la loro disponibilità ad assecondare un’eventuale mobilitazione di milizie di estrema destra. Le informazioni emerse in questi giorni mostrano legami talvolta innegabili tra elementi coinvolti in queste cospirazioni e ambienti riconducibili al presidente Trump.

In alcuni stati, ancora, è già stato autorizzato il dispiegamento di truppe della Guardia Nazionale per il giorno delle elezioni, come ad esempio in Texas, in previsione di proteste contro un possibile colpo di mano di Trump. Le basi per una dura repressione sono state così gettate. Malgrado i segnali evidenti di questo pericolo, i democratici continuano in larga misura a rifiutarsi di allertare gli elettori circa le intenzioni di Trump. Al massimo, Biden e i vertici del suo partito contano sull’intervento di militari e servizi di intelligence per impedire una spallata autoritaria di Trump. Se ciò non dovesse accadere, è praticamente certo che i democratici abbandonerebbero in fretta qualsiasi battaglia, lasciando a loro stessi gli americani che scenderanno per le strade a protestare contro Trump e le milizie di estrema destra.

Il clima generale in cui si svolgono le presidenziali americane è dunque a dir poco esplosivo e ad aggiungere tensioni sono anche le divisioni che caratterizzano le varie sezioni della classe dirigente d’oltreoceano. Buona parte dell’apparato di potere USA e dei grandi interessi economico-finanziari desidera una vittoria di Biden, perché ritiene un secondo mandato di Trump troppo rischioso per le potenzialità destabilizzanti che avrebbe sul fronte domestico e globale.

Questa accesissima competizione, che è prima di tutto per il salvataggio della posizione internazionale degli Stati Uniti, si riflette anche sulla quantità enorme e senza precedenti di denaro che è piovuto sulla campagna elettorale in corso. Durante la stagione 2020, che include le elezioni presidenziali ma anche quelle per il rinnovo di tutta la Camera dei Rappresentanti e di un terzo dei seggi del Senato, sono stati raccolti poco meno di 11 miliardi di dollari, cioè quasi il 60% in più rispetto al 2016, quando già venne battuto il precedente primato.

A questa cifra si deve aggiungere la spesa difficilmente definibile delle organizzazioni che sostengono i vari candidati ma non sono ad essi ufficialmente affiliate. Le cosiddette “Super PAC”, grazie a una sentenza della Corte Suprema del 2010, hanno facoltà di raccogliere e spendere denaro senza limiti e senza obbligo di rendere conto della provenienza.

Per quanto riguarda i finanziamenti finiti direttamente nelle casse dei candidati e quindi tracciabili, è possibile sapere che Biden ha beneficiato maggiormente della generosità di Wall Street e dell’industria delle telecomunicazioni. Corporation operanti nel settore sanitario, energetico e delle costruzioni hanno invece preferito staccare assegni per Trump, anche se praticamente tutte le grandi compagnie americane si assicurano di finanziare entrambi i partiti.

I finanziamenti dei piccoli donatori hanno fatto segnare infine un certo incremento in questo ciclo elettorale, ma la maggior parte del denaro, come sempre, non è arrivato da questi ultimi. Nonostante la pretesa di dipingere Biden come la scelta obbligata per difendere le classi più disagiate, il candidato democratico ha in realtà incassato il 61% dei propri fondi totali dai grandi finanziatori, contro il 55% di Donald Trump.

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