Per il governo americano e i sostenitori di Israele in genere, la strage che si sta compiendo da oltre una settimana nella striscia di Gaza sarebbe giustificata dal “diritto all’autodifesa” dello stato ebraico. Anche solo uno sguardo sommario alla situazione che sta vivendo la popolazione palestinese chiarisce tuttavia come questa giustificazione sia assurda, cinica e criminale. Se si prendono poi in considerazione nel dettaglio le conseguenze di alcune delle operazioni di questi giorni si inizia a comprendere la portata della catastrofe che vene inflitta ai palestinesi, con materiale abbondantemente sufficiente a un’incriminazione per crimini di guerra a carico dei vertici politici e militari israeliani.

 

Il bilancio provvisorio della guerra è di circa 220 vittime palestinesi, in buona parte civili o, quanto meno, non riconducibili a organizzazioni come Hamas e Jihad Islamica. Quasi la metà delle vittime sono donne e bambini. Il numero dei morti è destinato a salire in considerazione delle migliaia di feriti e dopo che la fine delle operazioni militari permetterà un conteggio più preciso dei danni e delle vittime provocate.

Uno degli aspetti più sconvolgenti della nuova aggressione israeliana è appunto la strage di bambini in atto. I casi documentati sono già moltissimi. Tra i più tragici c’è senza dubbio quello raccontato nei giorni scorsi dall’organizzazione umanitaria Norwegian Refugee Council. La ONG ha dato notizia della morte nei bombardamenti israeliani di almeno 11 bambini che facevano parte del programma di supporto psicologico, gestito dalla stessa organizzazione scandinava, con l’obiettivo di aiutarli a superare i traumi derivanti dalle atrocità a cui sono costretti ad assistere nella striscia di Gaza.

Il segretario generale del Norwegian Refugee Council ha scritto sul sito della stessa ONG che i bambini uccisi “erano nelle loro case, dove credevano di essere al sicuro”. Con loro sono morte “le loro famiglie, seppellite assieme ai loro sogni e agli incubi che li hanno perseguitati”. Una dei morti è Lina Iyad Sharir, di 15 anni, uccisa l’11 maggio con i genitori nella loro abitazione del quartiere Al Manara di Gaza City. Nel bombardamento è rimasta seriamente ferita anche la sorella Mina di due anni.

Hala Hussein al-Rifi aveva invece 13 anni ed è morta nella notte del 12 maggio dopo che un missile israeliano ha colpito il suo palazzo di Tal Al-Hawa, sempre a Gaza City. Nello stesso raid ha perso la vita anche Zaid Mohammad Telbani, di appena 4 anni, e la madre Rima, incinta di cinque mesi. La sorella Zaid, spiega la ONG norvegese, è tuttora dispersa e presumibilmente morta.

Il tragico elenco prosegue con le vittime causate dal bombardamento aereo multiplo del 16 maggio in una via centrale di Gaza City. In questo blitz sono stati uccisi sei bambini assistiti dal Norwegian Refugee Council: Tala Ayman Abu al-Auf (13 anni), assieme al fratello 17enne e al padre; le tre sorelle Rula Mohammad al-Kawlak (5), Yara (9) e Hala (12), morte con la cugina Hana (14) e svariati loro parenti; Rafeef Murshed Abu Dayer (10), deceduta una settimana prima del suo 11esimo compleanno assieme ai due fratelli mentre pranzavano nel giardino dell’edificio colpito.

La campagna criminale di Israele ha ufficialmente come obiettivo l’uccisione di leader e militanti di Hamas e Jihad Islamica e la distruzione della rete di tunnel che serve per fare entrare a Gaza il materiale, incluso quello bellico necessario alla difesa, proibito da Tel Aviv. Le autorità israeliane continuano inoltre a sostenere, quasi sempre senza nessuna prova, che le vittime civili sono “danni collaterali” dovuti all’uso di scudi umani da parte di Hamas e Jihad Islamica. Se anche così fosse, le responsabilità israeliane sarebbero immutate, visto che gli obiettivi colpiti sono chiaramente identificabili come civili e, anche nel caso siano utilizzati dai militanti, non possono in nessun modo diventare bersagli di bombardamenti.

Con giustificazioni di questo genere e grazie all’appoggio degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, Israele continua impunemente a uccidere civili palestinesi e a distruggere edifici e infrastrutture indispensabili per la vita nella striscia. L’elenco è evidentemente lunghissimo e, per quanto riguarda i danni materiali, comprende fino ad ora almeno una cinquantina di edifici scolastici, circa venti tra ospedali e strutture sanitarie e un impianto di desalinizzazione che fornisce acqua potabile a 250 mila persone.

Danni considerevoli sono stati provocati anche alle tubature che trasportano sempre acqua potabile, mentre le bombe hanno causato la distruzione di strade che servono alcuni ospedali, rendendo molto difficile l’accesso alla quantità enorme di feriti. Lunedì, inoltre, un bombardamento israeliano ha messo fuori uso l’unico laboratorio che a Gaza processa i test di positività al COVID-19. Lo stesso giorno a finire sotto i colpi delle incursioni aeree dello stato ebraico è stata la sede nella striscia della Mezzaluna Rossa del Qatar. Nell’attacco sono morti anche due palestinesi e altre dieci persone sono rimaste ferite.

Amnesty International sta da parte sua indagando su quattro bombardamenti contro edifici residenziali a Gaza City, condotti senza alcun preavviso, invitando il Tribunale Penale Internazionale a fare altrettanto. In queste circostanze sono stati uccisi complessivamente 43 palestinesi, tra cui 18 bambini e 12 donne. Nello stesso attacco è andato distrutto anche il palazzo del ministero del Lavoro di Gaza e un missile ha provocato un cratere lungo la strada che conduce al più importante ospedale della striscia, quello di al-Shifa.

La campagna di bombardamenti di Israele ha colpito poi il ministero della Salute di Gaza, causando il ferimento di personale medico. Nemmeno le strutture dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono state risparmiate. L’agenzia dell’ONU ha fatto sapere che 19 di quelle che gestisce nella striscia hanno subito danni, inclusa una clinica che fornisce assistenza sanitaria, messa completamente fuori uso.

L’organizzazione umanitaria Al Mezan, operante a Gaza, ha documentato inoltre “danni significativi” anche a moschee, banche ed altri edifici governativi, così come la “distruzione su larga scala di reti elettriche e idriche e di migliaia di metri quadrati di strade asfaltate di importanza vitale”. La carenza di energia elettrica dovuta ai bombardamenti israeliani sta aggravando la situazione umanitaria per i palestinesi a Gaza. Sempre secondo Al Mezan, nei giorni scorsi erano ormai quasi un milione i residenti rimasti senza elettricità. La situazione è peggiorata dal fatto che Israele ha chiuso l’unico punto di transito commerciale al confine con la striscia, rendendo quasi impossibili i rifornimenti di carburante per l’unica centrale elettrica funzionante, così come per i generatori privati.

In un ipotetico quanto improbabile processo per crimini di guerra non dovrebbero essere alla sbarra solo i leader politici e militari di Israele, ma anche quelli americani. È grazie alla copertura politica, legale e all’assistenza militare di Washington che Israele ha facoltà di massacrare la popolazione palestinese senza nessuna conseguenza. L’amministrazione Biden continua infatti ad appoggiare la campagna di Tel Aviv, nonostante una certa impazienza dovuta per lo più a ragioni di carattere strategico.

Nel pieno dei bombardamenti, poi, è circolata la notizia che ai primi di maggio gli USA avevano approvato la fornitura di materiale bellico a Israele per 735 milioni di dollari. Tra gli ordigni destinati a Israele ci sono anche missili simili a quelli utilizzati per la distruzione di centinaia di edifici a Gaza. Il pacchetto rientra negli “aiuti” che Washington garantisce a Israele per un importo pari a quasi quattro miliardi di dollari ogni anno. L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite ha infine bloccato con il veto in tre occasioni nell’arco di una settimana altrettante risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza per condannare Israele e chiedere un immediato cessate il fuoco.

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