Due commissioni del Senato americano hanno pubblicato questa settimana il primo rapporto ufficiale sui fatti del 6 gennaio scorso, quando una folla di sostenitori del presidente uscente Trump assediò per ore l’edificio che ospita il Congresso degli Stati Uniti a Washington. L’indagine ha avuto un carattere bipartisan e, anche per questa ragione, le conclusioni a cui i senatori sono arrivati non fanno luce in nessun modo sulle vere cause e responsabilità di quello che è stato a tutti gli effetti un tentativo di colpo di stato. Dal rapporto sono comunque emersi nuovi particolari sugli eventi di quel giorno, che confermano come l’assalto sia stato reso materialmente possibile da una serie di falle clamorose all’interno delle varie agenzie incaricate di garantire la sicurezza.

 

A indagare sono state la commissione per la Sicurezza Interna e quella per i “Regolamenti”, presiedute rispettivamente dai senatori democratici Gary Peters del Michigan e Amy Klobuchar del Minnesota. Durante i lavori, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i membri delle commissioni hanno ascoltato numerose testimonianze di funzionari e ufficiali coinvolti nei fatti, dal capo della polizia del Campidoglio e della città di Washington al comandante della Guardia Nazionale della capitale, fino ai massimi livelli dell’FBI, del dipartimento della Difesa e della Sicurezza Interna.

Un riassunto efficace di quanto emerso dall’indagine lo ha dato il senatore Peters, il quale è arrivato alla conclusione che, “in tutta onestà, l’attacco [all’edificio del Congresso] è stato pianificato alla luce del sole”. Questa affermazione è appunto supportata dal contenuto delle 127 pagine del rapporto, ma le conclusioni mancano di spiegare le ragioni per cui l’orda trumpiana neo-fascista abbia avuto campo libero – e così a lungo – malgrado le intenzioni e i piani dei partecipanti all’assalto fossero noti da settimane.

Per riassumere le argomentazioni del rapporto, a produrre la situazione di caos sarebbe stata una serie di concause, che includono la mancanza di comunicazioni efficaci tra i soggetti responsabili della sicurezza del Campidoglio, un grave deficit di pianificazione, equipaggiamenti inadeguati in dotazione alle forze di sicurezza e una “carenza di leadership”. Tutto ciò, secondo il rapporto, avrebbe consentito agli assalitori di riuscire quasi a fermare la certificazione della vittoria di Joe Biden nelle presidenziali, che era com’è noto in programma il 6 gennaio al Congresso sotto la supervisione del vice-presidente, Mike Pence.

Uno degli aspetti su cui si è concentrato maggiormente il rapporto del Senato è la quantità di informazioni che erano disponibili in rete e, in particolare, sui social media per anticipare le mosse dei gruppi di estrema destra che hanno agito il 6 gennaio scorso. Discussioni decisamente esplicite erano in corso in questi ambienti almeno dall’ultima settimana di dicembre. Nei numerosi messaggi che le stesse commissioni hanno citato nel corso dell’indagine erano emersi scambi di battute che, in condizioni normali, avrebbero dovuto far scattare più di un segnale di allarme. Come è emerso nei mesi scorsi, inoltre, l’FBI aveva informatori dentro ad alcuni gruppi neo-fascisti che hanno guidato l’attacco.

Già il 21 dicembre, agenti della polizia del Congresso sapevano che i rivoltosi intendevano portare armi alla manifestazione del 6 gennaio, da usare eventualmente contro le forze dell’ordine. In rete circolavano inoltre le planimetrie del Campidoglio, attorno alle quali si discuteva per individuare i punti di accesso e il sistema di gallerie sotterranee, nonché di come intrappolare deputati e senatori. L’obiettivo finale era quello di fermare la proclamazione di Biden presidente, annullare le elezioni e aprire la strada a un colpo di mano da parte di Trump per rimanere alla Casa Bianca.

Il rapporto del Senato è ad ogni modo ancora più rilevante per i fatti e le informazioni che non ha preso in considerazione. Come già anticipato, la natura bipartisan dell’indagine ha fatto in modo che il ruolo dello stesso Trump nei fatti del 6 gennaio fosse del tutto rimosso. In un infuocato comizio poche ore prima, l’allora presidente uscente aveva incitato i suoi sostenitori a muovere verso il Congresso per “combattere” e ribaltare l’esito delle presidenziali, dopo che nelle settimane seguite al voto aveva alimentato a dismisura la tesi della frode elettorale ai suoi danni.

Per comprendere il contributo alla verità del rapporto appena pubblicato è sufficiente poi ricordare come alcuni dei senatori repubblicani che hanno partecipato ai lavori, teoricamente per fare chiarezza sul tentativo di rivolta, siano stati profondamente implicati negli eventi, visto che avevano appoggiato il tentativo di Trump di screditare il voto, assecondando la tesi della “elezione rubata” e rifiutandosi fino all’ultimo di riconoscere la vittoria di Biden.

Non solo, il rapporto evita di trarre le conclusioni o di approfondire il contenuto di alcune testimonianze esplosive registrate dalle commissioni del Senato. La più importante è stata forse quella dell’ex comandante della Guardia Nazionale di Washington, generale William Walker. Quest’ultimo aveva rivelato come agli uomini al suo comando fosse stato insolitamente impedito di muovere verso “Capitol Hill” per parecchie ore nonostante le disperate richieste di intervento provenienti da politici e agenti di polizia sotto assedio.

A fermare l’intervento che avrebbe potuto riportare l’ordine al Congresso fu l’ordine del segretario alla Difesa, Christopher Miller, e di quello dell’Esercito, Ryan McCarthy. Il via libera al contingente della Guardia Nazionale fu dato molto tardivamente e solo dopo che Trump era intervenuto pubblicamente per chiedere ai rivoltosi di fare un passo indietro. Nelle ore trascorse tra l’inizio dell’assalto al Campidoglio e la dichiarazione di Trump devono avere avuto luogo frenetiche discussioni alla Casa Bianca e al Pentagono su come procedere nel tentativo di golpe e per verificare quali appoggi nell’apparato militare e della sicurezza nazionale avrebbe potuto garantirsi il presidente repubblicano.

Tutti gli “errori” e le “sviste” delle agenzie che avrebbero dovuto impedire i fatti del 6 gennaio sono stati alla fine ricondotti dal rapporto del Senato sostanzialmente a innocenti problemi di natura organizzativa. La ricostruzione dei fatti indica piuttosto la concreta possibilità che a livelli importanti nell’FBI, al Pentagono, nelle forze di polizia e nel dipartimento per la Sicurezza Interna ci siano stati elementi che hanno favorito il tentativo di insurrezione programmato da milizie e organizzazioni di estrema destra in appoggio a Trump.

In questo senso, il rapporto delle due commissioni del Senato ha molti punti di contatto con quella che indagò gli attentati dell’11 settembre 2001. Anche in quell’occasione, i movimenti e i piani dei terroristi, spesso avvenuti sotto il controllo del governo, erano stati giudicati impossibili da fermare a causa di una presunta mancanza di coordinazione tra le agenzie di intelligence americane. È significativo, d’altra parte, che il Partito Democratico aveva cercato di istituire una speciale commissione “indipendente” per indagare più a fondo sui fatti del 6 gennaio, esplicitamente sul modello di quella di due decenni fa, ma l’opposizione dei repubblicani, proprio nei giorni scorsi, l’ha fatta affondare prima che nascesse.

In tutti i casi, come la commissione sull’11 settembre, anche quella che avrebbe dovuto prendere corpo ufficialmente per fare luce sul tentato golpe di Trump sarebbe servita più a nascondere la verità che a rivelarla. Lo stesso compito lo ha avuto comunque il rapporto di questa settimana delle due commissioni del Senato. La ragione di ciò risiede in definitiva nello scarso appetito di Biden e dei democratici per un’indagine approfondita e a tutto campo che avrebbe potuto rivelare complicità imbarazzanti negli apparati dello stato e le responsabilità di buona parte del Partito Repubblicano, finendo per destabilizzare pericolosamente l’intero sistema politico americano.

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