di Giuseppe Zaccagni

Continua a pesare sull’intera Europa l’ombra della guerra nel Kosovo. Perché dalla capitale austriaca - dove serbi e albanesi si trovano a confronto con l’inviato delle Nazioni Unite, il finlandese Martti Ahtisaari – le notizie non sono buone. I negoziati, infatti, continuano a correre su binari diversi. Non si intravedono processi validi per un compromesso capace di pacificare la provincia. L’Onu insiste per un autogoverno della maggioranza albanese, pur se con forti garanzie per la minoranza serba; i kosovari-albanesi, invece, si battono per ottenere l’indipendenza e divenire i padroni della terra considerandosi come discendenti degli Illiri, autoctoni prima dell’arrivo di Slavi, Cristiani ed Islamici I serbi, dal canto loro, continuano a considerare il Kosovo come parte irrinunciabile della Serbia e pongono l’accento sul fatto che a rovinare la situazione locale è stata la Nato quando, nel 1999, attaccò la Jugoslavia di Milosevic, riducendo il Kosovo ad un suo protettorato, dove è ancora presente una forza di interposizione di circa 16.000 uomini. E sempre i serbi – che sono i padroni di casa dal momento che il Kosovo è ancorato a Belgrado – fanno rilevare che le proposte delle Nazioni Unite potrebbero essere accettate solo se inserite nel quadro di una “autonomia sostanziale, ma sempre all’interno della Serbia”.

Torna così con tutta la sua gravità l’eco di una guerra che è stata camuffata come un intervento umanitario. Perché è stata la guerra della Nato a violare il diritto internazionale, ad affermare la nuova egemonia politica e militare occidentale nella fascia sudorientale europea. A portare nuove sofferenze alle popolazioni locali e a non assicurare, di conseguenza, la stabilità.
Ed è in questo contesto di estrema tensione – vero muro contro muro – che il negoziatore Ahtissaari cerca di smussare gli angoli esortando al dialogo. Prevedendo, in sostanza, una forma di indipendenza sotto sorveglianza internazionale, dice che: "E' necessaria la collaborazione. Perché niente funzionerà, nemmeno nella migliore delle ipotesi, se le differenti comunità non si tenderanno la mano e cominceranno a discutere in un modo più civile di quanto sia stato fatto finora".
Nulla di fatto, quindi. E al negoziatore dell’Onu non resta che riprendere le sue valigie, tornare al Palazzo di Vetro per poi ripresentarsi a Vienna dove – dal 1 al 10 marzo – si dovrebbe raggiungere una soluzione. Ma su questo piano d’attacco politico-diplomatico pesano quei problemi che sino ad oggi hanno impedito soluzioni e negoziati reali. In primo luogo perché a Tirana è sempre vivo il progetto della “Grande Albania” e a fomentarlo sono i politici locali, gli uomini del business e di quegli ambienti legati ai grandi affari della mafia che, proprio nel Kosovo, hanno le loro “autostrade” preferenziali. E in gioco non c’è solo la mafia albanese, ma anche quella serbo-montenegrina, tanto che si può dire che il Kosovo è oggi la terra dove si lavano i denari sporchi di gran parte del mondo.

C’è poi il problema sempre aperto di quelle ingenti risorse economiche che dovrebbero essere destinate a migliorare le condizioni di vita dei rifugiati del Kosovo. E questo vuol dire sostenere paesi come l’Albania e la Macedonia che hanno sopportato (e sopportano) l’ondata d’urto dei profughi.
Intanto sull’intera vicenda di questo conflitto balcanico torna a pesare la pozione della Russia. Un paese che ha chiesto sempre un intervento militare internazionale contro la guerriglia albanese. Con Putin che, più volte, ha stabilito un paragone tra la situazione nei Balcani e la guerra in Cecenia. In pratica Mosca ha sempre accusato l’Occidente di non aver agito con sufficiente durezza nei confronti dell’Uck creando così situazioni a rischio per la stessa stabilità europea.

Ora Putin torna sull’intera questione. Lo ha fatto con il discorso di Monaco, nel quale ha chiesto che si giunga ad una soluzione: “Che sia in grado di non togliere l'onore a nessuna della parti coinvolte, una soluzione, qualsiasi essa sia, sostenibile e che non porti due nazioni, quella serba e quella albanese, ad odiarsi a vicenda per decenni o centinaia di anni”. Una tesi del genere, comunque, non aiuta a capire se, la Russia, sia o meno pronta a porre il veto presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel caso debba essere proposta una risoluzione sul Kosovo invisa alla Serbia.

E mentre Mosca si interroga sul futuro delle trattative di Vienna, si registrano alcune dichiarazioni che escono da un autorevole centro di politologia degli Usa. Se ne fa portavoce Michel Radu, che è uno dei massimi esponenti dell’Istituto di studi di politica estera che ha sede a Filadelfia. E’ lui che da un’emittente in russo sostiene che gli Usa accetterebbero una divisione del Kosovo in due territori – serbo e albanese – lasciando comunque all’intero Kosovo la possibilità di ottenere la completa indipendenza. Ma su questa soluzione peserebbe sempre l’incognita della sopravvivenza generale. Perché il Kosovo – è sempre l’analista americano a farlo rilevare – “non potrebbe sopravvivere come stato autonomo”. “Sarebbe sempre – aggiunge – un buco nero nell’Europa balcanica, una fonte di criminalità organizzata, una base per trafficanti di narcotici e per il mercato della prostituzione internazionale”.

Ed è per questi motivi che gli Usa pongono, ancora una volta, la loro cappa sull’intera situazione kosovara. Come dire che le questioni del rapporto tra Belgrado e Tirana si decidono a Washington. Lasciando all’Onu e alla Russia il ruolo di mediatori che dovrebbero “garantire” la nascita di un nuovo stato albanese-kosovaro. Ma già si sa che questo eventuale stato futuro sarebbe uno stato dominato da manager che potranno muoversi solo all’ombra dell’Unione Europea e, per di più, sotto la tutela americana. Ecco perché la Russia di Putin cerca di mantenere il contenzioso nell’ambito di una soluzione da decidere all’interno del pur complesso mondo serbo. La parola torna a Belgrado?

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