I Frugali tornano all’attacco dei mediterranei. La settimana scorsa, in una lettera indirizzata all’Ecofin, i ministri delle Finanze di otto Paesi si sono schierati contro l’ipotesi di modificare le regole di bilancio europee. Il mantra è sempre lo stesso, “i trattati non si toccano”, e a ripeterlo sono i soliti falchi: dietro alla capofila Austria si schierano Olanda, Finlandia, Danimarca, Svezia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Lettonia.

L’obiettivo è fermare sul nascere il tentativo di riformare il Patto di Stabilità, un proposito ribadito più volte dal commissario per gli Affari economici, Paolo Gentiloni, e mai contraddetto dalla numero uno della Commissione, Ursula von der Leyen.

Quando si parla del Patto, il riferimento è sempre a due regole su tutte: nei conti pubblici di ogni singolo Paese il deficit annuo non deve superare il 3% del Pil, mentre il debito va mantenuto entro la soglia del 60%.

Questi parametri sono stati concepiti quando l’indebitamento medio in Europa si aggirava appunto intorno al 60%, mentre oggi - a causa delle politiche espansive imposte dalla pandemia - quello stesso valore ha raggiunto all’incirca il 100%.

Pretendere di governare la realtà di oggi con le regole di ieri è un chiaro anacronismo, una scelta miope e cinica. Ai Frugali però non interessa: quello che vogliono è solo a compiacere i loro elettori, in larga parte ancora fissati con la contrapposizione fra cicale mediterranee e formiche nordiche.

Tutto questo però ora non conta. Se nemmeno il Covid ha insegnato agli austriaci che di austerità si muore, è il momento abbandonare la filosofia per abbracciare il pragmatismo. E la realtà è che il Patto non si può riformare: essendo un trattato, per modificarlo serve il voto unanime dei Paesi comunitari. Una prospettiva lunare, visto che ad opporsi sono addirittura otto membri.

Per arrivare alla meta, quindi, bisogna trovare una via laterale. E forse a Bruxelles l’hanno già scovata: invece di intervenire direttamente sul Patto, si pensa di mettere mano ai regolamenti che lo attuano, il “Two Pack” e il “Six Pack”.

In particolare, si potrebbero correggere le procedure di rientro, cioè le regole che impongono a chi sfora di falciare la spesa pubblica. Ad oggi, i Paesi con un deficit superiore al 3% del Pil sono costretti a ridurre il disavanzo dello 0,5% annuo, mentre quelli con un rapporto debito-Pil che va oltre il 60% (in Italia, per intenderci, è nell’ordine del 160%) devono ridurre lo sforamento di un ventesimo l’anno. Che è tantissimo.

Ora, per evitare il suicidio collettivo, l’Europa ha sospeso il Patto di Stabilità fino alla fine del 2022 e non è escluso che lo stop possa essere prolungato di un altro anno. Da sola, tuttavia, la proroga non risolve il problema: anche nel 2024, la maggior parte dei conti pubblici europei sarà fuori dai parametri e imporre manovre lacrime e sangue significherebbe infliggerci una nuova recessione.

Se cambiamo le procedure di rientro scongiuriamo questo scenario, il più catastrofico. Di sicuro non è la soluzione migliore, perché non mette al centro la crescita e non ci tutela affatto dal rischio di un’austerità di ritorno, ma al momento è l’unica politicamente praticabile.

In ogni caso, per fare un pronostico sull’esito della battaglia manca ancora un indizio fondamentale: la composizione del nuovo governo tedesco, che rischia di vedere la luce solo a fine anno, anche se le elezioni sono in programma per il 26 settembre.

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