La pubblicazione da parte dell’amministrazione Biden del primo di una serie di documenti riservati sul possibile coinvolgimento dell’Arabia Saudita negli attentati dell’11 settembre 2001 è stata accolta in generale come un non evento che confermerebbe l’estraneità di Riyadh dai fatti che due decenni fa hanno inaugurato la “guerra al terrore”. In realtà, il quadro che ne esce, anche se per ora molto parziale, appare più sfumato e, in ogni caso, dell’iniziativa della Casa Bianca devono essere valutate anche le implicazioni geo-politiche, soprattutto per quel che riguarda l’evoluzione dei rapporti tra Washington e il regno wahhabita.

 

Il documento di 16 pagine declassificato qualche giorno fa risale al 4 aprile del 2016 e alimenta quanto meno ulteriori dubbi sul ruolo saudita negli attacchi. Ciò sembra oggettivamente il massimo che ci si poteva attendere, dal momento che, al di là delle effettive responsabilità, era impensabile la diffusione di materiale segreto che avrebbe puntato il dito per i fatti dell’11 settembre direttamente ai vertici di uno degli alleati più importanti degli Stati Uniti.

Le circostanze descritte nel documento si riferiscono a un’indagine dell’FBI denominata “ENCORE” e, in particolare, in esso vengono analizzate testimonianze, movimenti e contatti del presunto agente segreto saudita Omar al-Bayoumi. Le attività sospette di quest’ultimo erano di dominio pubblico da tempo, ma la recente rivelazione voluta da Biden conferma come il cittadino saudita fosse appunto oggetto di un’indagine ufficiale per la sua condotta nei mesi precedenti l’attentato. Secondo la versione ufficiale, Bayoumi era uno studente della State University di San Diego con incarichi presso il consolato saudita di Los Angeles. Le sue spese negli USA erano sostenute dal ministero della Difesa del suo paese, per il quale aveva lavorato.

In California, Bayoumi aveva aiutato finanziariamente e logisticamente due dei dirottatori dell’11 settembre, Nawaf al-Hazmi e Khalid al Mihdhar, quando erano giunti a Los Angeles. I due cittadini sauditi erano a bordo del Boeing 757 partito dall’aeroporto Dulles di Washington e schiantato contro l’edificio del Pentagono, uccidendo tutti i 64 passeggeri e 125 persone nell’edificio.

Dal documento si evince inoltre che l’imam saudita assegnato al consolato di Los Angeles, Fahad al-Thumairy, si era mosso anch’egli per assistere i due futuri terroristi, i quali avrebbero poi soggiornato provvisoriamente nell’abitazione di un informatore dell’FBI. Sia Bayoumi sia Thumairy avevano avuto altri rapporti con membri di al-Qaeda ed entrambi avrebbero poi lasciato gli Stati Uniti poco prima degli attentati. Alcuni di questi legami erano già stati individuati dall’indagine della commissione speciale del Congresso USA sull’11 settembre, ma ciò che era emerso in quel caso erano relazioni occasionali o fortuite, mentre l’indagine del “Bureau” ricostruiva uno schema fatto di molteplici contatti e telefonate.

La recente pubblicazione dovrebbe essere seguita da altre nelle prossime settimane ed è il frutto di un decreto firmato a inizio mese dal presidente Biden, ufficialmente in risposta alle richieste e alle cause legali intentate dalle associazioni dei famigliari delle vittime dell’11 settembre. Queste ultime denunciano da tempo i moltissimi punti oscuri degli eventi accaduti nel 2001 e chiedono al governo di mettere a disposizione tutto il materiale relativo alle possibili responsabilità del regime saudita.

Il primo documento appena pubblicato contiene comunque molti omissis e lo stesso decreto presidenziale stabilisce la possibilità di negare la pubblicazione di informazioni particolarmente sensibili per la sicurezza nazionale. Questa eccezione farà in modo che non ci saranno rivelazioni esplosive che coinvolgano direttamente la casa regnante saudita, tanto che essa stessa aveva emesso recentemente un comunicato ufficiale per chiedere la pubblicazione di tutte le informazioni in mano americana, così da mettere a tacere ogni sospetto nei confronti di Riyadh.

Resta però il fatto che già il materiale appena pubblicato rappresenta una prima ammissione ufficiale del collegamento tra individui legati alle strutture di governo di questo paese e gli attentatori. È significativo a questo proposito che praticamente tutti i media “mainstream” americani si siano affrettati già dai titoli dei loro articoli sulla vicenda a minimizzare la portata delle rivelazioni, mettendo subito in chiaro come non siano emerse prove certe di collegamenti tra l’Arabia Saudita e i terroristi dell’11 settembre dal documento dell’FBI.

I famigliari delle vittime degli attentati hanno accolto invece la pubblicazione in maniera diametralmente opposta, facendo notare in modo del tutto legittimo come, quanto meno, le loro accuse nei confronti del regime saudita abbiano trovato un qualche appiglio nell’indagine dell’FBI. Soprattutto, le nuove informazioni non permettono di chiudere il discorso sul coinvolgimento saudita, ma alimentano gli interrogativi e sollecitano ulteriori approfondimenti.

A questo aspetto della questione ha fatto probabilmente riferimento il commento di un legale dei famigliari delle vittime, secondo il quale “il documento, assieme alle prove di dominio pubblico raccolte finora, fornisce un modello di come al-Qaeda operava sul territorio americano con l’appoggio attivo e deliberato del governo saudita”. La sensibilità di queste informazioni è difficile da sopravvalutare, poiché vanno a toccare una delle priorità strategiche degli Stati Uniti – l’alleanza con l’Arabia Saudita – e nello specifico aprono scenari clamorosi per via dei legami strettissimi tra le agenzie di intelligence dei due paesi.

In altre parole, l’accostamento, in parte confermato dal documento recentemente pubblicato, tra gli individui oggetto di indagine, entrati in relazione con alcuni dei dirottatori, e i servizi sauditi o la CIA e l’FBI, rende difficilmente credibile l’ipotesi che l’intelligence americana fosse del tutto all’oscuro dei movimenti in corso e dei piani allo studio per colpire gli Stati Uniti. Allo stesso modo, continua a essere per nulla convincente la tesi dell’involontaria incapacità di mettere assieme le informazioni a disposizione per fermare il complotto, vuoi per mancanza di risorse o per semplice incompetenza.

Altri commentatori e analisti hanno inoltre giudicato impossibile il coinvolgimento saudita nei fatti dell’11 settembre semplicemente perché non avrebbe avuto senso la partecipazione in un evento che, se fossero emerse le responsabilità, avrebbe messo a rischio l’alleanza con Washington. Anche in questo caso fanno testo gli interrogativi rilevati in precedenza. Le circostanze scottanti vedono implicati non solo elementi sauditi ma, più o meno tangenzialmente, anche agenzie governative americane, così che, volendo portare il ragionamento alle estreme conseguenze, l’eventuale responsabilità anche solo del mancato intervento per fermare il complotto, non sarebbe solo di Riyadh ma anche di Washington. Tenendo presente inoltre che l’attacco al World Trade Center e al Pentagono è stata la giustificazione per lanciare guerre programmate da tempo che rispondevano agli obiettivi strategici di gran parte della classe dirigente americana.

La vicenda è in definitiva più complessa di quanto appaia o di come la stia trattando la stampa ufficiale. Ciò si collega anche a un altro risvolto dell’iniziativa di Biden, ovvero che la de-classificazione dei documenti riservati sull’11 settembre può essere utilizzata come una strumento a proprio favore nel quadro del riassetto in corso delle relazioni con Riyadh. In particolare, potrebbe essere l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (MBS), l’obiettivo della Casa Bianca. Già lo scorso febbraio, l’amministrazione democratica aveva diffuso un documento riservato che metteva in imbarazzo quello che viene ritenuto il vero detentore del potere a Riyadh, vale a dire un rapporto dell’intelligence che collegava MBS al brutale assassinio nel 2018 del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul.

I segnali di freddezza tra i due alleati sono stati numerosi dopo l’insediamento di Biden e sembrano riflettere la revisione in atto delle politiche mediorientali americane. Proprio dei giorni scorsi è ad esempio la notizia del ritiro dei più avanzati sistemi di difesa missilistici USA dal territorio del regno, proprio mentre quest’ultimo è esposto all’intensificarsi degli attacchi aerei dei “ribelli” Houthis dello Yemen, dove i sauditi sono invischiati in un sanguinoso conflitto.

Molti giornali hanno ricondotto le decisioni di Biden alle simpatie di MBS per Trump, ma in gioco ci sono fattori di portata più ampia. Una delle questioni attorno alle quali Stati Uniti e Arabia Saudita divergono è l’approccio diplomatico all’Iran, scartato da Trump e rimesso in piedi invece dal suo successore. I rapporti con Teheran non esauriscono però la questione delle frizioni tra i due alleati, anche perché lo stesso regno wahhabita ha condotto negli ultimi mesi svariati round di colloqui con la Repubblica Islamica per ristabilire le relazioni diplomatiche.

Decisamente più rilevanti sono piuttosto le ansie di Washington per la conduzione della politica estera saudita da parte di MBS, il quale da tempo punta a diversificare le relazioni del suo paese in ambito energetico, economico e anche militare. Questo obiettivo ha portato alla costruzione di rapporti piuttosto solidi e con prospettive di ulteriori miglioramenti con Russia e Cina. Proprio questi nuovi scenari potrebbero dunque avere spinto l’amministrazione Biden ad aumentare le pressioni su Riyadh, al punto che, secondo alcune teorie, l’obiettivo di Washington sarebbe quello di ottenere dal sovrano saudita Salman la modifica della linea di successione al trono per sostituire Mohammed bin Salman con un membro della famiglia reale maggiormente gradito agli Stati Uniti.

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