L’intervento militare russo per “demilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina ha scatenato una gigantesca macchina della propaganda in Occidente che rivela sia l’importanza della posta in gioco nel conflitto sia la natura relativamente inaspettata per gli USA e l’Europa dell’operazione ordinata dal presidente Putin. La demonizzazione fino a ben oltre il limite dell’isteria di qualsiasi elemento politico, economico, culturale e addirittura sportivo legato alla Russia comporta di conseguenza un offuscamento totale delle vere ragioni degli eventi di questi giorni, la cui responsabilità deve essere attribuita interamente agli alleati di Kiev e allo stesso regime ucraino.

 

Al di là del giudizio di merito sulla campagna autorizzata dal Cremlino, un’analisi anche approssimativa di quanto accaduto in Ucraina a partire dal golpe promosso da Washington e Berlino nel 2014 chiarisce come la soluzione militare in corso sia stata pressoché inevitabile. La cortina di fumo della propaganda di governi e media ufficiali negli Stati Uniti e da questa parte dell’Atlantico serve così in primo luogo a nascondere il disinteresse e, anzi, l’ostilità per una soluzione pacifica del conflitto, offerta dall’implementazione mai avvenuta degli Accordi di Minsk, per non parlare delle legittime richieste relative alla propria sicurezza presentate più recentemente dalla Russia come punto di partenza di un possibile negoziato.

La sostanziale inevitabilità dell’intervento russo in Ucraina è da collegare alla necessità di fermare l’escalation, promossa dall’Occidente, che stava portando il paese dell’ex Unione Sovietica a tutti gli effetti dentro l’orbita NATO, per farne un avamposto di una futura offensiva militare contro Mosca. A questo scopo erano e continuano a essere dirette le massicce forniture militari garantite a Kiev, mentre l’altro fattore da considerare e che resta interamente fuori dal dibattito sui media occidentali è l’intensificarsi degli attacchi contro le provincie orientali filo-russe per mano delle forze ucraine, all’interno delle quali sono stati integrati svariati gruppi paramilitari di stampo neonazista.

L’indifferenza deliberata per la situazione nel “Donbass”, la cui difesa era stata da tempo indicata come una invalicabile linea rossa dal Cremlino, appare tanto più singolare se si pensa agli interventi militari a guida NATO o USA negli ultimi due decenni o poco più. In Serbia e in Libia, infatti, le bombe di Washington e dei suoi alleati erano cadute precisamente per fermare un “genocidio” che, a differenza di quello molto più vicino a essere realtà in Ucraina orientale, era interamente frutto della propaganda occidentale.

Il ribaltamento della realtà riguardo ai fatti in Ucraina ha senza dubbio influito sulla relativa mobilitazione contro la guerra a cui si sta assistendo in Occidente. È del tutto evidente che almeno una parte dei partecipanti alle manifestazioni contro l’intervento russo sono animati da un sincero turbamento per la sorte dei civili ucraini e da un’avversione nei confronti della guerra tout court. Ciò conferma in ogni caso il livello di disorientamento dell’opinione pubblica occidentale, affogata suo malgrado nella propaganda dei media “mainstream” e di governi con tendenze censoree sempre più accentuate. A questa campagna partecipano però anche e soprattutto personalità pubbliche di rilievo e attivisti di professione che conoscono o dovrebbero conoscere sia la realtà del conflitto ucraino sia i precedenti molto più sanguinosi delle presunte democrazie occidentali che oggi difendono la ancora più presunta democrazia ucraina.

C’è da chiedersi in altre parole dove era possibile trovare almeno qualche traccia di indignazione per le iniziative americane di “pace” di cui si è quasi perso il conto negli ultimi anni. Oltre ai già ricordati casi di Kosovo e Libia, paese quest’ultimo letteralmente distrutto dopo la finta crociata per la rimozione di Gheddafi nel 2011, rimangono oggi aperte le ferite di Iraq e Afghanistan, ma anche della Siria e, per mano di alleati di ferro di Washington, dello Yemen, dove nell’indifferenza si consuma dal 2015 la più grave catastrofe umanitaria attualmente in atto nel pianeta.

In merito ad esempio all’Iraq, va ricordato che i militari USA e di alcuni paesi loro alleati restano sul terreno nonostante un voto del parlamento di Baghdad che a inizio 2020 ne aveva chiesta formalmente l’evacuazione. Ancora peggio in Siria, dove un contingente USA occupa in maniera totalmente illegale un’area nella parte orientale del paese in guerra, appoggiando le milizie curde nell’appropriazione delle risorse energetiche della popolazione e del governo legittimo. Restando inoltre alla situazione in Ucraina, sotto silenzio continuano a passare la repressione e i veri e propri massacri commessi ai danni della popolazione filo-russa, inaugurati già nel 2014 con episodi come la strage di Odessa nel maggio di quello stesso anno.

Questa strategia dei difensori dell’Ucraina ha così preparato l’opinione pubblica occidentale a quella che viene dipinta come un’invasione dai contorni quasi nazisti e ordinata da un dittatore accostato nemmeno troppo velatamente a Hitler. In parallelo, il bersaglio delle operazioni militari russe diventa una sorta di baluardo democratico contro la barbarie putiniana e la resistenza del suo popolo esaltata fino a promuovere il trasferimento di combattenti volontari, di certo destinati a ingrossare le fila delle forze neonaziste, in aggiunta ai militari NATO già pericolosamente mobilitati nel quadro della cosiddetta “Forza di reazione rapida”.

La disinformazione occidentale permea anche le pseudo-analisi delle motivazioni che avrebbero spinto Putin a ordinare l’operazione in corso in Ucraina. Per lo più si parla di un autocrate all’angolo, isolato sul piano internazionale, nonché potenzialmente in affanno sul fronte interno, e che ha in definitiva sbagliato i propri calcoli. Le manovre militari russe appaiono al contrario attentamente studiate, anche se verosimilmente non condivise nella sua totalità dall’apparato di potere, e la contromossa di Mosca davanti alle prolungate minacce occidentali era stata a lungo prospettata da Putin, spesosi fino all’ultimo per una soluzione negoziata che, legittimamente, tenesse in considerazione le esigenze strategiche e della sicurezza del suo paese.

L’offensiva occidentale con la valanga di sanzioni economiche già decise e in fase di studio minaccia ora seriamente la stabilità interna della Russia. Uno degli obiettivi di Washington o, meglio, dei grandi poteri economici e finanziari che controllano il processo decisionale americano resta d’altra parte il cambio di regime a Mosca e la trasformazione della Russia in uno stato vassallo con le rispettive ricchezze da consegnare agli appetiti del capitalismo transnazionale.

Fermo restando che queste sole misure punitive contro un determinato paese sgradito a Washington raramente ottengono il risultato sperato, vedi Iran e Siria, sembra esserci nella furia sanzionatoria che sta investendo la Russia più di un elemento di confusione che rischia di avere effetti controproducenti, quanto meno nel medio e lungo periodo. Molti analisti al di fuori dei circuiti accademici e mediatici ufficiali stanno mettendo in evidenza ad esempio come l’intervento russo in Ucraina e la conseguente risposta occidentale rappresentino un punto di rottura che potrebbe dare l’impulso decisivo alla nascita di un quadro globale all’insegna della multipolarità.

I fattori in questo senso sono molteplici e complessi, ma uno degli aspetti più importanti sembra essere l’espulsione delle banche russe, o per lo meno di alcune di esse, visto che alcuni paesi occidentali sono costretti per il momento a continuare a importare e quindi pagare il petrolio e il gas russo, dal sistema di comunicazione interbancaria SWIFT. Questo provvedimento finirà con l’accelerare il consolidamento di sistemi alternativi che, in maniera poco sorprendente, sia Russia sia Cina hanno già predisposto da anni. In un contesto più ampio e per semplificare, le implicazioni finanziarie della crisi in atto, che è conseguenza appunto della crisi irreversibile dell’unipolarismo americano, rischiano per Washington di accelerare la fine della centralità del dollaro nell’economia mondiale, in primo luogo per l’impossibilità, da parte americana, di contenere contemporaneamente Mosca e Pechino.

Per tornare ai veri motivi della crisi ucraina, è utile citare una lunga analisi proposta nei giorni scorsi dall’economista americano Michael Hudson, il quale sottolinea in primo luogo come le sorti di questo paese non siano la principale preoccupazione degli sponsor del regime di Kiev. L’analista e docente dell’università del Missouri spiega come le ripetute provocazioni nei confronti di Mosca, alimentando la “violenza etnica anti-russa” nelle regioni orientali dell’Ucraina, ha avuto come obiettivo il giungere a una sorta di resa dei conti con il Cremlino.

Alla base di ciò, prosegue Hudson, ci sono le paure dei grandi interessi americani che l’influenza “politica ed economica USA sui loro alleati NATO e sugli altri paesi satellite dell’area dollaro” stia venendo meno, mentre questi stessi paesi vedono maggiori opportunità di crescita in “investimenti e rotte commerciali con Cina e Russia”. Le dinamiche economiche risultano fondamentali in quest’ottica e Hudson identifica tre centri di potere che negli Stati Uniti decidono degli orientamenti di politica estera, con evidenti conseguenze sugli eventi attuali.

L’industria bellica beneficia per cominciare dell’aumento del livello di scontro con la Russia, come confermano gli impegni già presi da più parti per l’invio di nuovi armamenti all’Ucraina. Il discorso vale anche per gli stessi paesi europei alleati di Washington che, implementando progetti guerrafondai già predisposti da tempo, si sono affrettati ad annunciare ulteriori investimenti in ambito militare. Clamoroso e inquietante è stato in questi giorni il discorso in parlamento del cancelliere tedesco Olaf Scholz. Il leader socialdemocratico, tra l’approvazione di tutto lo spettro politico domestico, ha annunciato un colossale aumento delle spese militari fino alla quota del 2% del PIL.

Il secondo centro di potere è rappresentato dal settore petrolifero ed estrattivo in genere che punta a “monopolizzare il mercato energetico dell’area dollaro sganciandolo dalla Russia”. Il boicottaggio del gasdotto Nord Stream 2 è a questo proposito emblematico, visto anche che risponde a un altro obiettivo di questo business, ovvero la riduzione della disponibilità di gas e petrolio e il conseguente aumento delle quotazioni a tutto beneficio dei profitti dei produttori americani. L’industria finanziaria spinge infine per la “privatizzazione delle economie dei paesi esteri”, così da aprire immense opportunità al capitale americano nei settori più disparati, dalla sanità all’educazione, dai trasporti alle telecomunicazioni.

Assieme a questi possibili benefici, scrive ancora Hudson, le manovre americane e l’evolversi della situazione ucraina portano con sé, a tutto vantaggio nuovamente del capitalismo USA, la probabile penalizzazione dell’economia europea sotto il peso dell’incremento vertiginoso dei prezzi di gas e petrolio. Questa considerazione solleva ancora una volta il ricorrente carattere autolesionista dei governi UE, a cominciare proprio da quello tedesco, alla fine piegatosi alle pressioni americane per l’affondamento del Nord Stream 2. La spaccatura che a lungo dividerà l’Europa dalla Russia minaccia in sostanza l’esclusione del vecchio continente dalle molteplici opportunità di interconnessione con l’oriente, in nome di fasulli valori democratici e della fedeltà al carrozzone NATO, sempre più, nelle parole di Michael Hudson, “organo decisionale [USA] della politica estera europea”, fino a influenzarne e “dominarne gli interessi economici nazionali”.

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