La crisi ucraina esplosa il 24 febbraio scorso con l’inizio delle operazioni militari russe sembra essere caratterizzata, da un lato, dall’avanzata relativamente lenta ma efficace delle forze di Mosca e dall’altro da una certa ambivalenza dei governi occidentali nel loro sostegno a Kiev. Questi ultimi continuano ad adottare misure economiche punitive di ampia portata, sia pure risparmiando in alcuni casi il settore energetico, ma sottraendosi da iniziative militari che comporterebbero uno scontro diretto con la Russia. Ciononostante, le provocazioni occidentali e il trasferimento di armamenti al regime ucraino continuano senza sosta, mentre anche su altri fronti nei giorni scorsi gli eventi collegati alla guerra hanno fatto segnare sviluppi decisamente interessanti.

 

Gli aerei polacchi

Il governo ultra-nazionalista polacco resta in questa fase del conflitto l’elemento più ferocemente anti-russo dello schieramento NATO, anche se condivide con altri il timore di provocare una reazione militare devastante da parte di Mosca. La vicenda dei velivoli da guerra teoricamente destinati a Kiev e la sua caotica gestione ha dimostrato il grado di incertezza che domina i vertici del fronte anti-russo. Martedì, Varsavia aveva annunciato il trasferimento di tutti i MIG-29 di fabbricazione russa che fanno parte della propria flotta aerea alla base americana di Ramstein, in Germania. I mezzi, a disposizione degli Stati Uniti, avrebbero dovuto essere consegnati all’Ucraina per l’utilizzo contro la Russia. Per quanto riguarda la Polonia, i velivoli sarebbero stati poi rimpiazzati dall’acquisto di F-16 americani.

La posizione di Washington sul caso dei MIG polacchi è apparsa tutt’altro che chiara. L’accordo era stato con ogni probabilità discusso dalle due parti nei giorni precedenti e il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, si era detto favorevole a dare il via libera alla consegna. Nella serata di martedì è arrivata però la doccia fredda del Pentagono. Il portavoce del dipartimento della Difesa, John Kirby, ha frenato bruscamente, definendo “non praticabile” il piano annunciato dalla Polonia, poiché “il decollo di aerei da guerra da una base USA/NATO in Germania verso uno spazio aereo conteso tra Russia e Ucraina solleverebbe gravi preoccupazioni per l’intera alleanza atlantica”.

In sostanza, come avevano già confermato le precedenti dichiarazioni dei rappresentanti dei governi di Stati Uniti e Polonia, entrambi i sostenitori di Kiev auspicano in linea di principio la messa a disposizione di velivoli da guerra alle forze ucraine, ma entrambi vogliono scaricare sull’altro la responsabilità di un’iniziativa che comporterebbe probabilmente l’ingresso in un conflitto diretto con la Russia.

MIG a parte, le forniture di materiale bellico dei paesi NATO all’Ucraina proseguono con un ritmo quasi senza precedenti. La tempestività dei trasferimenti di armi dimostra come il progetto di armare il regime di Kiev era stato predisposto da tempo e per metterlo in atto si attendevano soltanto i risultati delle provocazioni nei confronti della Russia. Tra le novità recenti riconducibili a questo fronte va segnalato il posizionamento in Polonia di due nuove batterie di missili Patriot da parte degli USA, ufficialmente a scopi “puramente difensivi”. Interessante sarebbe anche un approfondimento circa l’identità e l’attitudine dei beneficiari delle spedizioni di armi in Ucraina, ma quest’ultimo rimane un argomento che non rientra tra gli interessi della stampa occidentale. A questo proposito, lunedì il canale Nexta, allineato all’opposizione filo-occidentale in Bielorussia, ha pubblicato alcune immagini dove si vedono militari NATO impegnati a istruire sull’uso di missili anti-carro NLAW alcuni membri del battaglione Azov che ostentano divise con simboli neo-nazisti.

Embargo USA

La guerra economica degli Stati Uniti contro Mosca si è intensificata martedì con la decisione dell’amministrazione Biden di sospendere tutte le importazioni di gas e petrolio russo. Il presidente americano ha presentato il provvedimento come un colpo decisivo nei confronti di Mosca, ma, se anche la fetta di prodotti energetici russi importati dagli USA è relativamente trascurabile, è probabile che l’embargo finisca per penalizzare maggiormente proprio il paese che lo sta per implementare. La misura imposta da Washington ha fatto subito alzare le quotazioni del greggio, peraltro già alle stelle, con prevedibili effetti pesantissimi sul costo dei carburanti e sull’economia americana in generale.

Biden ha riconosciuto in qualche modo il rischio della sua decisione, tanto da ammettere le conseguenze negative che ci saranno per gli americani. A pochi mesi dalle elezioni di metà mandato, per far digerire all’opinione pubblica gli effetti di una gestione a dir poco sconsiderata della crisi ucraina, Biden ha poi offerto una celebrazione cinica dei danni inflitti – realmente o ipoteticamente – all’economia russa e spiegato, apparentemente senza ironia, che “la difesa della democrazia comporta dei costi”. A proposito di costi, lo stop al gas e al petrolio russi, per il momento respinto dai paesi europei, è stato accolto con una contromossa del Cremlino che avrà a sua volta effetti tutti da quantificare sulle economie occidentali e sulle catene di approvvigionamento di tutto il mondo. Il decreto firmato da Putin prevede il blocco di esportazioni e importazioni di materiali che verranno specificati nei prossimi giorni.

Sempre per quanto riguarda il petrolio e le quotazioni in costante crescita, gli ultimi sviluppi hanno creato un’altra situazione al limite del patetico per Washington. Il bisogno di mettere sul mercato una quantità di greggio tale da rimpiazzare quello russo ha spinto la Casa Bianca a inviare una delegazione americana in Venezuela, dove verosimilmente gli USA hanno elemosinato petrolio a un governo che negli ultimi anni hanno provato in tutti i modi a rovesciare, soprattutto tramite lo stop alle esportazioni di greggio.

Riflessi da valutare ci saranno anche sui negoziati per la riesumazione dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA). Il governo americano anche in questo caso vorrebbe chiudere in fretta per favorire l’afflusso sui mercati del petrolio iraniano e fermare l’escalation delle quotazioni. La nuova urgenza USA consegna così a Teheran un’arma in più per ottenere maggiori concessioni dai propri interlocutori, ma le prospettive per la diplomazia non sono del tutto rosee. La Russia, che fa parte dei paesi impegnati nelle trattative a Vienna, ha infatti chiesto una garanzia scritta all’amministrazione Biden che i rapporti con la Repubblica Islamica non saranno ostacolati dalle sanzioni collegate alla crisi ucraina.

Zelensky e la diplomazia

Sul fronte diplomatico, l’esitazione occidentale ad accogliere le richieste del regime di Kiev circa l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e l’imposizione di una no-fly zone nei cieli del paese, sembra avere convinto il presidente Zelensky ad aprire a un possibile “compromesso” con Mosca. In un’intervista a ABC News, l’ex comico televisivo si è detto disponibile a cercare una soluzione per fermare la guerra che includa anche lo status della Crimea e delle due repubbliche del Donbass.

Da un punto di vista razionale, Zelensky non ha alternative alla ricerca di un “compromesso” con il Cremlino. Resta da vedere fino a dove sarà autorizzato a spingersi dai padroni di Washington e dalle pressioni della galassia neonazista che detiene un’influenza enorme sulle scelte relative alla politica estera e alla sicurezza dell’Ucraina. Le questioni più scottanti sono ovviamente quelle del riconoscimento della Crimea come territorio russo e dell’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, ritenute “non negoziabili” dal Cremlino. Il prossimo round di colloqui tra Russia e Ucraina potrebbe chiarire se ci saranno maggiori spiragli per uno stop delle operazioni militari e, forse, le crepe che si intravedono nella compattezza delle posizioni europee potrebbero dare un qualche impulso alla diplomazia.

Le armi biologiche

Un altro tema scottante emerso in questi giorni è quello dei laboratori di ricerca biologica in territorio ucraino fondati e gestiti in collaborazione con gli Stati Uniti. Nell’ex paese sovietico ci sarebbero più di trenta di queste strutture dove, secondo Mosca, il Pentagono promuove lo studio di armi biologiche. L’ingresso in Ucraina dei militari russi era stato seguito dalle denunce da parte di Mosca di una frenetica attività per distruggere qualsiasi prova che dimostrasse l’esistenza di programmi a scopo militare in questo ambito. Il ministero della Difesa russo ha pubblicato una serie di documenti che dimostrerebbero l’esistenza di un simile ordine arrivato dalle autorità ucraine e, di conseguenza, la violazione del trattato sulla messa al bando delle armi biologiche (BTWC), di cui Washington e Kiev sono firmatari.

Il silenzio americano sulla questione è stato rotto martedì nel corso di un’udienza al Senato americano della sottosegretaria per gli “Affari Politici” del dipartimento di Stato, Victoria Nuland, tra le principali protagoniste dell’organizzazione del colpo di stato in Ucraina del 2014. La Nuland ha a un certo punto ammesso l’esistenza dei laboratori di ricerca e il ruolo che gli USA svolgono in essi. Quando però la discussione stava diventando imbarazzante, con l’aiuto del senatore repubblicano Marco Rubio, la Nuland ha ribaltato il problema, spostando l’attenzione sul pericolo, o presunto tale, che i laboratori possano finire nelle mani dei militari russi.

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