Le autorità politiche e militari dello stato ebraico sono a tal punto abituate ad agire nella completa impunità che, subito dopo l’assassinio di mercoledì in Cisgiordania della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, avevano emesso un comunicato ufficiale per attribuirne sostanzialmente la responsabilità ai combattenti palestinesi. Solo dopo che la versione israeliana è stata smentita dalle testimonianze di chi si trovava con la reporter palestinese con passaporto americano e dall’analisi dei filmati disponibili in rete, Tel Aviv ha fatto una parziale marcia indietro e ostentato un atteggiamento più cauto. Ciò che seguirà, tuttavia, è tutt’al più un’inutile indagine interna alle forze armate di Israele, le cui conseguenze, si può affermare con certezza fin da ora, saranno le stesse di quelle seguite a decenni di occupazione illegale, violenze e discriminazioni imposte al popolo palestinese.

 

Tutto quello che i vertici militari israeliani hanno ammesso è che nei momenti precedenti la morte di Shireen Abu Akleh era in corso uno scontro a fuoco, risultato di un’operazione nel campo profughi di Jenin, dove si sta da qualche tempo consolidando una resistenza palestinese più o meno spontanea contro le incursioni sempre più frequenti degli occupanti. Da svariate settimane, Israele è responsabile di violenti raid militari quasi quotidiani in Cisgiordania, ufficialmente in risposta alla serie di attentati che dalla fine di marzo hanno fatto un ventina di vittime israeliane. Come sempre, le ritorsioni indiscriminate per questi episodi sono sproporzionate e hanno già causato decine di morti e centinaia di feriti tra i palestinesi.

Tutti gli elementi che sono emersi sui fatti di mercoledì a Jenin indicano che quanto avvenuto è un’esecuzione in piena regola di una veterana giornalista cristiana-palestinese che, come i colleghi con cui si trovava sul campo, indossava un elmetto, un giubbotto antiproiettile con la scritta “stampa” e, una decina di minuti prima della sua morte, si era assicurata di informare i militari israeliani della propria presenza.

La reporter che era con lei, Shatha Hanaysha, ha dato un resoconto drammatico dei fatti. Mentre il gruppo di giornalisti si stava dirigendo verso il campo profughi di Jenin, è iniziato il fuoco senza alcun avvertimento. Il primo a essere colpito, alla schiena e in maniera non fatale, è stato il collega di Al Jazeera Ali al-Samoudi. Hanaysha e Shireen Abu Akleh sono rimaste bloccate sul lato opposto della strada nel tentativo di evitare le pallottole. A quel punto è arrivato un colpo al collo di Shireen Abu Akleh che è crollata a terra all’istante. Quando l’altra giornalista ha cercato di avvicinarsi per cercare di prestarle soccorso, è stato esploso un altro colpo e Shatha Hanaysha si è salvata solo riparandosi dietro un albero che l’ha nascosta alla vista dei soldati israeliani. Quest’ultima ha concluso il suo racconto poco dopo i fatti accusando “l’esercito di occupazione” di avere “sparato per uccidere”.

La stessa impressione l’ha avuta Ali al-Samoudi, il quale da un letto di ospedale ha spiegato che il gruppo di giornalisti di cui faceva parte si trovava in uno spazio aperto dove erano perfettamente visibili. Inoltre, Samoudi ha assicurato che in quel punto non erano in corso scontri a fuoco con i palestinesi, né erano presenti combattenti o civili palestinesi. “Stavamo filmando l’operazione dell’esercito israeliano”, ha spiegato Samoudi, e “improvvisamente [i militari] ci hanno sparato senza chiederci di allontanarci o di interrompere le riprese”.

Ancora Samoudi ha poi aggiunto un particolare decisivo per ricostruire l’accaduto, cioè che il luogo dove il gruppo di giornalisti si trovava per svolgere il proprio lavoro era stato scelto precisamente perché lì non vi era presenza di combattenti palestinesi. “Se ce ne fossero stati”, ha affermato Samoudi, “non ci saremmo andati”. I giornalisti, infatti, avevano scelto un incrocio stradale dove sapevano che i combattenti palestinesi non si sarebbero avvicinati perché totalmente all’aperto e senza la possibilità di trovare riparo dal fuoco israeliano. Numerosi testimoni hanno infine riferito che gli scontri a fuoco tra israeliani e palestinesi stavano avvenendo a una certa distanza dal luogo dove è stata assassinata la reporter di Al Jazeera, ovvero in alcuni vicoli del campo profughi.

La ONG israeliana B’Tselem ha fatto un sopralluogo sul campo dopo avere analizzato il video diffuso dal governo di Tel Aviv, nel quale si vedevano palestinesi armati impegnati a fare fuoco nei vicoli citati in precedenza e accusati dai militari israeliani di avere ucciso Shireen Abu Akleh. Confrontando le due aree, B’Tselem ha concluso che è “impossibile” che la giornalista sia stata colpita a morte dal fuoco palestinese. Dopo avere cancellato il tweet con il video, condiviso vergognosamente anche dall’account dell’ambasciata americana, il comandante delle Forze Armate israeliane, generale Aviv Kochavi, ha affermato semplicemente che, “per il momento, non siamo in grado di stabilire da dove sia venuto il fuoco” che ha colpito Shireen Abu Akleh.

Nonostante la giornalista sia cittadina americana, la reazione del governo di Washington alla sua morte ha confermato in pieno l’attitudine degli Stati Uniti nei confronti del proprio principale alleato in Medio Oriente. L’ambasciatore Tom Nides si è detto “molto rattristato” e ha chiesto una “indagine accurata”, per poi offrire cinicamente l’assistenza consolare americana alla famiglia di Shireen Abu Akleh. Le dichiarazioni di circostanza dell’amministrazione Biden equivalgono a un colpo di spugna preventivo per il governo di Israele, in linea con la puntuale difesa da parte degli USA dei crimini sistematici commessi dallo stato ebraico contro il popolo palestinese.

Per quanto riguarda politici e militari israeliani, invece, il sentimento prevalente, sia esso manifestato apertamente o taciuto, è che l’uccisione forse deliberata di una giornalista che stava documentando la violenza dello stato ebraico è nell’ordine normale delle cose. Per quanto accaduto, perciò, non occorre chiedere scusa. Esattamente queste parole ha pronunciato ad esempio l’ex portavoce dell’esercito Avi Benayahu in un’intervista rilasciata mercoledì. Il deputato del Fronte Nazionale Ebraico di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, è stato ancora più esplicito, esprimendo la piena solidarietà ai militari israeliani e sostenendo che “la corrispondente di Al Jazeera aveva spesso ostacolato il loro lavoro posizionandosi intenzionalmente nel pieno degli scontri” con i palestinesi.

Queste parole rivelano probabilmente più del dovuto, poiché dimostrano come Israele consideri legittimo eliminare anche fisicamente chiunque documenti l’oppressione dei palestinesi e metta a disposizione del pubblico una versione dei fatti diversa da quella propagandata da Tel Aviv e dai suoi alleati. Infatti, gli attacchi mirati di Israele contro la stampa sono moltissimi e ben documentati. Solo un paio di settimane fa, alcune organizzazioni giornalistiche palestinesi e internazionali avevano presentato una denuncia contro Israele al Tribunale Penale Internazionale a nome di quattro giornalisti palestinesi – Ahmed Abu Hussein, Yaser Murtaja, Muath Amarneh and Nedal Eshtayeh – uccisi o gravemente feriti mentre stavano coprendo dimostrazioni di protesta a Gaza.

Secondo il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, a partire dal 2000 almeno 46 reporter palestinesi sono stati uccisi da Israele, mentre nessun soldato o ufficiale dello stato ebraico è stato condannato. Un’altra statistica simile è stata compilata dalla ONG Reporter Senza Frontiere, per la quale dal 2018 le forze di sicurezza israeliane sono state responsabili del ferimento di almeno 144 giornalisti palestinesi con proiettili di gomma, granate stordenti, gas lacrimogeni e pestaggi puri e semplici a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Il network Al Jazeera è stato a sua volta in più di un’occasione bersaglio di Israele, soprattutto per via del sostegno a Hamas del governo del Qatar. Nel giugno dello scorso anno, ad esempio, la giornalista Jivara al-Badri era stata brutalmente arrestata e percossa durante una protesta a Gerusalemme Est, mentre clamoroso fu il bombardamento nel maggio 2021, durante l’aggressione israeliana a Gaza, dell’edificio che nella striscia ospitava gli uffici della stessa Al Jazeera, oltre che della Associated Press.

L’elenco delle vittime, da completare con quelle molto più numerose di semplici civili e combattenti palestinesi, è destinato ad ogni modo a crescere ancora, fino a quando cioè le potenze occidentali, che oggi ostentano il loro pieno appoggio ai neo-nazisti in Ucraina in nome dei valori democratici, continueranno a coprire i crimini israeliani e a garantire l’impunità per responsabili e mandanti.

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