La clamorosa rivolta popolare che nel fine settimana ha costretto alle dimissioni le più alte cariche dello Sri Lanka minaccia di creare un vuoto di potere che la classe dirigente indigena e i governi della regione, nonché gli Stati Uniti, temono possa destabilizzare definitivamente un paese situato in una posizione strategica nell’Oceano Indiano. Quello a cui si è assistito nei giorni scorsi è il culmine di una gravissima crisi che era iniziata almeno dall’esplosione della pandemia nel 2020, per poi far segnare una nuova drammatica accelerazione dopo l’introduzione delle sanzioni contro la Russia decise dall’Occidente subito dopo l’inizio delle operazioni militari di Mosca in Ucraina.

 

La situazione sembrava vicina al tracollo già lo scorso aprile con proteste di massa per chiedere le dimissioni del presidente Gotabaya Rajapaksa e del governo, oggetto di un malcontento crescente a causa dell’aumento vertiginoso del prezzo dei beni di prima necessità e della carenza di molti di questi ultimi. Il crollo della rupia cingalese ha reso poi ancora più costose le importazioni, mentre il governo si è ritrovato nell’impossibilità di pagare gli interessi su un debito estero di 51 miliardi di dollari, finendo in default per la prima volta dal dopoguerra.

Gotabaya Rajapaksa aveva cercato di calmare le acque, sostituendo a maggio il primo ministro e fratello, Mahinda, con il veterano Ranil Wickremesinghe. L’obiettivo di rimettere in piedi un’economia devastata principalmente, anche se non solo, da fattori esterni fuori controllo è però fallito e il persistere delle manifestazioni popolari, continuate anche sotto la minaccia del coprifuoco e della repressione delle forze di sicurezza, ha portato all’epilogo del fine settimana.

Mentre decine di migliaia di cingalesi prendevano possesso di edifici in teoria super-protetti, come le residenze ufficiali del presidente e del primo ministro, così come di quella privata di quest’ultimo, Gotabaya Rajapaksa e Wickremesinghe annunciavano le loro dimissioni. Il primo dovrebbe lasciare anticipatamente l’incarico entro mercoledì. Il premier resterà al suo posto fino a che non verrà formato un nuovo governo di transizione, in modo da continuare a garantire un punto di riferimento per i soggetti che potrebbero erogare aiuti allo Sri Lanka, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) o paesi come India e Cina.

Le forze politiche di opposizione si sono già incontrate per cercare una soluzione che stabilizzi la situazione interna. Il parlamento è stato convocato per il 15 luglio e cinque giorni più tardi verrà votato il nuovo presidente. Molti di questi partiti avevano appoggiato apertamente il movimento spontaneo di protesta per costringere Rajapaksa alle dimissioni e ottenere alcune modifiche all’assetto istituzionale cingalese, prima fra tutte l’abolizione del sistema presidenzialista. Malgrado ciò, qualunque siano i nomi che verranno proposti per occupare le cariche vacanti prima delle probabili elezioni, le decisioni che saranno prese finiranno per imporre nuovi pesanti sacrifici alla popolazione dello Sri Lanka.

I commenti di analisti, commentatori e politici cingalesi in queste ore hanno fatto intendere che non ci sono soluzioni praticabili al di fuori di un accordo per un pacchetto di aiuti del FMI, con cui il precedente governo stava già negoziando. Anzi, l’esecutivo che si riuscirà a mettere assieme avrà come primo obiettivo di sottoporre entro poche settimane al FMI un “piano di sostenibilità del debito” che spiani la strada a un accordo per l’erogazione di qualche miliardo di dollari in “aiuti”.

Usando un eufemismo, un analista politico cingalese, sentito dall’agenzia Bloomberg, ha definito “improbabile” che alcuni partiti che sosteranno il prossimo governo di unità nazionale, destinato a “concordare riforme economiche con il FMI”, riusciranno a evitare una perdita di consensi tra i loro sostenitori. Detto altrimenti, le “riforme” che chiede il Fondo per venire in aiuto dello Sri Lanka alimenteranno ancora di più le tensioni sociali.

Il compito del prossimo presidente e del prossimo governo non sarà infatti tanto quello di migliorare le intollerabili condizioni di vita della popolazione, ma di stabilizzare la situazione interna a favore dei creditori internazionali. È evidente che il probabile peggioramento di una crisi già drammatica richiederà misure ancora più repressive per evitare un’ulteriore esplosione delle proteste. Rivelatore e assieme minaccioso è stato in questo senso l’appello lanciato sabato dal vice-comandante dello Stato Maggiore della Difesa, generale Shavendra Silva, il quale ha affermato che “il popolo deve fornire l’appoggio necessario alle forze armate e alla polizia per mantenere la pace nel paese”. Se il caos dovesse proseguire, in sostanza, oltre al pugno di ferro si potrebbe profilare un intervento diretto dei militari per “pacificare” il paese.

A complicare le cose per lo Sri Lanka è l’importanza geo-strategica che questo paese ricopre, tanto da essere stato al centro, negli ultimi anni, di una vera e propria competizione tra potenze come Cina, India e Stati Uniti, tutte impegnate a garantirsi una certa influenza sul governo di Colombo. La classe politica indigena ha cercato in linea generale di mantenere buoni rapporti con tutte le potenze, in modo da ricavarne i maggiori vantaggi possibili.

Dopo la fine del sanguinoso conflitto interno contro i ribelli Tamil, tuttavia, le amministrazioni presiedute dai fratelli Rajapaksa hanno costruito relazioni piuttosto solide con la Cina, che è infatti coinvolta oggi in svariati progetti soprattutto infrastrutturali sull’isola. Tra la presidenza di Mahinda Rajapaksa e quella del fratello Gotabaya si era inserita invece un’operazione favorita da Washington e Delhi con l’installazione alla guida del paese di Maithripala Sirisena dopo le elezioni del 2015. Il ritorno dei Rajapaksa al potere nel 2019 era stata la conseguenza dell’impopolarità dell’amministrazione filo-occidentale di Sirisena, la quale non aveva peraltro rotto le relazioni con Pechino. La fine ingloriosa di Gotabaya ha evidenziato così i problemi strutturali che affliggono lo Sri Lanka, aggravati dalla corruzione dilagante a cui ha presieduto la famiglia Rajapaksa.

Anticipando le mosse di Washington, il governo cinese ha subito avvertito la Casa Bianca a non sfruttare la crisi attraverso “manipolazioni geopolitiche”, quando ciò che servirebbe è una reale assistenza alla popolazione cingalese. Un tema frequente proposto dagli Stati Uniti riguardo alle difficoltà dell’economia dello Sri Lanka, così come di altri paesi che partecipano alla “Nuova Via della Seta” cinese, è la presunta “trappola del debito” in cui sarebbero finiti.

Secondo questa tesi, la partnership con Pechino implica un conto molto salato in termini di indebitamento. I paesi che stipulano accordi con la Cina per investimenti e progetti vari si ritroverebbero in sostanza indebitati oltre le loro possibilità e, quindi, esposti alle pressioni e al volere di Pechino. La Cina, da parte sua, respinge fermamente questa interpretazione. Nel caso dello Sri Lanka, un editoriale pubblicato lunedì dalla testata ufficiale in lingua inglese Global Times ha ricordato che solo il 10% del debito estero di Colombo riguarda la Cina, mentre la maggior parte va riferito a “creditori occidentali” e a “istituzioni finanziarie multilaterali”.

Il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, ha da parte sua già attribuito alla “aggressione russa” dell’Ucraina parte della colpa dei disordini in Sri Lanka. Durante una visita in Tailandia, il capo della diplomazia americana ha collegato la “crescente insicurezza alimentare” in tutto il mondo alla “aggressione” di Mosca. Anche in Sri Lanka, a suo dire, le operazioni militari russe hanno perciò contribuito al peggioramento della situazione. In realtà, le responsabilità delle scosse che stanno interessando la catena mondiale degli approvvigionamenti, inclusi quelli dei beni alimentari, sono tutte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Questi ultimi hanno prima provocato un conflitto totalmente evitabile e poi si sono lanciati in una campagna di sanzioni che, invece di colpire la Russia, hanno avuto conseguenze disastrose per loro stessi e per i paesi poveri dipendenti dalle importazioni di beni di prima necessità.

Che la crisi in Sri Lanka non sia stata percepita nemmeno dalla sua classe dirigente come colpa della Russia è confermato anche dal fatto che il primo ministro dimissionario Wickremesinghe in una recente intervista alla Associated Press aveva ipotizzato, per risolvere il problema della carenza di carburante, un approccio a Mosca per ottenere forniture di petrolio a prezzo scontato.

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