Una delle verità documentate del conflitto in Ucraina e quasi sempre trascurate dai media ufficiali in Occidente è che il regime di Zelensky commette regolarmente crimini di guerra sia bombardando in maniera deliberata obiettivi civili sia trasformando in postazioni militari edifici come scuole, case e ospedali senza che vi sia una stretta necessità derivante dalla guerra in corso. Il governo russo e la stampa indipendente denunciano questa situazione da tempo, ma le atrocità o presunte tali verificatesi sul campo di battaglia a partire dal 24 febbraio scorso continuano a venire attribuite esclusivamente alle forze di Mosca. Questa settimana, il comportamento dell’Ucraina è finito però al centro di un’indagine anche di Amnesty International, una ONG non esattamente accusabile di simpatie putiniane, che ha appunto documentato i crimini del regime di Kiev costati finora la vita a un numero imprecisato di civili.

 

È pratica comune per le forze armate ucraine installarsi in aree residenziali, scrive Amnesty, “situate a chilometri di distanza dalle linee del fronte e da spazi alternativi che non metterebbero a rischio i civili”, come ad esempio “basi militari, boschi o altre strutture lontane dalle zone residenziali”. In pratica, gli ufficiali ucraini ordinano regolarmente ai loro soldati di insediarsi in condomini oppure scuole e ospedali, da dove aprono il fuoco verso le postazioni russe, trasformando di conseguenza gli edifici occupati in legittimi obiettivi militari di Mosca.

Amnesty conferma anche che le forze ucraine non invitano nemmeno ad andarsene i civili che si trovano in questi stessi edifici o nelle immediate vicinanze, astenendosi così dall’adottare una misura precauzionale imposta dal diritto internazionale. Tutto ciò dimostra che il ricorso di fatto a “scudi umani” o civili è una scelta deliberata del regime di Kiev, attuata per provocare bombardamenti russi e accusare poi Mosca di colpire indiscriminatamente obiettivi civili.

Gli episodi di questo genere sono stati molteplici in questi mesi e quasi sempre ignorati dai media occidentali. Quando le notizie sono invece circolate, questi ultimi hanno riportato all’opinione pubblica occidentale solo la versione ucraina. Anche senza una presenza di reporter sul campo per verificare l’accaduto, in molti casi sarebbe bastato un esame nemmeno troppo approfondito di immagini, video e testimonianze di dominio pubblico relative ai bombardamenti per arrivare a una ricostruzione più realistica.

Amnesty riporta ad esempio le dichiarazioni di alcuni residenti di un condominio nella città di Lysychansk, molto simili a quelle che erano state raccolte da una giornalista del New York Times qualche tempo fa dopo la distruzione di un altro edificio residenziale, in questo caso nella località di Chasiv Yar. Nelle loro affermazioni si trova la conferma di come i militari ucraini avessero usato la struttura abitata da civili per sparare in direzione dei russi. Il risultato è stato l’arrivo dei colpi dell’artiglieria russa e la morte di un numero imprecisato di inquilini, quasi tutti anziani, e soldati ucraini. Identici sviluppi c’erano stati a Chasiv Yar, ma incredibilmente la corrispondente del Times non aveva tratto le logiche conclusioni dai fatti a cui aveva assistito di persona e di cui aveva scritto, cercando invece di fare apparire l’attacco russo come deliberatamente diretto contro un edificio civile.

A proposito di questo comportamento delle forze ucraine, il segretario generale di Amnesty International Agnès Callamard, già relatrice speciale ONU sulle esecuzioni sommarie, ha affermato che il rapporto appena pubblicato documenta uno “schema” ben preciso attuato da Kiev che “mette a rischio le vite dei civili” in “violazione del diritto di guerra durante le operazioni in aree abitate”. L’esperta francese di diritti umani ha aggiunto che “il fatto di essere su posizioni difensive non dispensa i militari ucraini dal rispetto del diritto umanitario internazionale”.

HIMARS e i complici americani

L’altra faccia di questa medaglia sono i bombardamenti ucraini che si ripetono su obiettivi civili, in questo caso senza nessun valore militare, nelle località delle due repubbliche del Donbass. La città di Donestsk è la più esposta al fuoco e proprio giovedì mattina è stato registrato un attacco contro un teatro dove era in corso una cerimonia dedicata a Olga Kachura, colonnello russo recentemente uccisa in battaglia. Le bombe hanno colpito anche strade e altri edifici nelle vicinanze, facendo svariate vittime. Tra i feriti ci sarebbe un giornalista del network russo RT, mentre un video-reporter italiano presente sul posto è riuscito a malapena a mettersi in salvo.

Episodi simili sono aumentati sensibilmente nelle ultime settimane in concomitanza con l’invio al regime di Kiev di sistemi lanciarazzi multipli americani HIMARS (“High Mobility Artillery Rocket System”). Questi ordigni risultano piuttosto precisi ed efficaci, anche se non rappresentano l’elemento in grado di cambiare le sorti del conflitto, come sostengono molti commentatori sui media ufficiali. Piuttosto, l’impiego degli HIMARS ha fatto salire il numero di vittime civili causato dalle forze di Kiev e ha dato l’occasione di fare luce sul ruolo del personale americano impegnato sul campo in Ucraina.

Una delle questioni più controverse è stata quella del bombardamento con due missili lanciati il 29 luglio da una batteria HIMARS sulla prigione di Olenivka, a 30 chilometri da Donetsk, dove erano detenuti combattenti del battaglione neo-nazista Azov catturati dai russi a Mariupol. I morti tra questi ultimi sono stati 50 e circa 70 quelli feriti. Kiev ha negato la responsabilità della strage, accusando la Russia di avere inscenato il bombardamento. Alcuni giornalisti televisivi hanno però avuto accesso poco dopo i fatti al campo di prigionia di Olenivka e hanno rilevato elementi che confermano l’uso di HIMARS.

Secondo alcuni, l’operazione sarebbe stata condotta deliberatamente dai vertici ucraini per mettere a tacere i detenuti neo-nazisti, tra i quali vi era chi aveva iniziato a collaborare con i russi. Uno di questi è Dmytro Kozatsky, apparso in un video il giorno prima del bombardamento della prigione per accusare il consigliere di Zelensky, Oleksij Arestovich, di avere ordinato la tortura e l’esecuzione sommaria di soldati russi fatti prigionieri.

L’altro aspetto importante legato agli HIMARS è da ricondurre alla testimonianza del generale Vadym Skibitsky, vice-direttore dell’intelligence militare ucraina, sulla collaborazione tra le forze del suo paese e gli americani. Skibitsky ha rivelato in un’intervista al britannico Daily Telegraph che ogni lancio di missili da parte ucraina viene preceduto da “consultazioni” con l’intelligence USA. Per il generale, “Washington ha facoltà di fermare qualsiasi potenziale attacco [missilistico]”, se questo è diretto contro obiettivi che gli Stati Uniti preferirebbero risparmiare.

Da tempo si parla della presenza di personale americano sul terreno in Ucraina a sostegno delle forze armate locali in gravissima difficoltà. Anche a livello ufficiale erano già emerse notizie sull’impegno USA nel fornire agli ucraini, oltre ad armi e addestramento, informazioni di intelligence per individuare e colpire obiettivi russi. La testimonianza del generale Skibitsky è però particolarmente incriminante, anche perché si accompagna alla già ricordata impennata dei bombardamenti contro obiettivi civili. La favola del rifiuto da parte degli Stati Uniti di partecipare in maniera diretta al conflitto con la Russia è quindi sul punto di crollare definitivamente e, oltretutto, il ruolo del personale americano appare sempre più collegabile a gravissimi crimini di guerra.

La turbina della discordia

Sul fronte del gas, il Cremlino ha messo a segno un altro colpo molto pesante in questi giorni che potrebbe spingere oltre il precipizio un’Europa e, in particolare, una Germania già alle prese con una crisi energetica di cui non si intravede la fine. Mercoledì, il gigante russo Gazprom ha fatto sapere che non potrà accettare la turbina utilizzata per pompare il gas verso occidente attraverso il gasdotto Nord Stream 1 a causa delle complicazioni derivanti dalle sanzioni europee.

La turbina in questione era finita in riparazione in Canada e la sua dismissione temporanea si era tradotta nella diminuzione del 40% delle forniture di gas russo alla Germania. Siemens, la società responsabile dei lavori, inizialmente si era detta impossibilitata a riconsegnare la turbina alla Russia a causa dell’opposizione del governo canadese, ben deciso a far rispettare le sanzioni. Quando però la situazione stava diventando critica per la Germania, ormai a corto di gas, era stata decisa una “eccezione” alle sanzioni.

La turbina aveva avuto allora il via libera, ma invece di essere inviata in Russia si era fermata in Germania. Per Gazprom si tratterebbe di una violazione del contratto di fornitura di gas con Berlino e questa settimana ha attribuito alle sanzioni europee e alla mancanza di tutti i documenti necessari relativi al macchinario l’impossibilità di ultimare la consegna. Il problema per la Germania è che il transito di gas tramite il Nord Stream 1 è ulteriormente calato al 20% dopo che Gazprom il 27 luglio aveva disconnesso un’altra turbina perché anch’essa bisognosa di riparazioni.

Mosca sta dunque sfruttando magistralmente l’arma del gas per far ritorcere contro l’Europa le assurde sanzioni adottate in questi mesi. In questo modo, stanno anche salendo le pressioni sul governo del cancelliere Scholz per attivare il gasdotto Nord Stream 2, di fatto già ultimato e pronto a pompare gas russo ma sospeso a inizio anno su insistenza degli USA. Le richieste di imprenditori e politici locali tedeschi per far partire il Nord Stream 2 si stanno moltiplicando in parallelo all’aggravarsi della situazione energetica in Germania. Il governo di Berlino è però davanti a un dilemma: proseguire nelle politiche autolesioniste dettate dagli interessi americani o considerare finalmente le esigenze del paese e provocare l’ira di Washington e Kiev.

Zelensky e lo spiraglio diplomatico

Il veterano commentatore “ultra-mainstream” del New York Times, Thomas Friedman, ha scritto qualche giorno fa che l’amministrazione Biden sarebbe ai ferri corti con il presidente ucraino. Tra Biden e Zelensky ci sarebbe insomma “una profonda sfiducia”, decisamente “maggiore di quanto viene riportato” pubblicamente. Friedman cita come uno dei fattori irritanti per la Casa Bianca il recente licenziamento in tronco da parte di Zelensky del procuratore generale ucraino e del numero uno del servizio segreto domestico. Il “columnist” del Times sostiene in sostanza che il governo USA non avrebbe un’idea accurata di quanto sta accadendo nelle stanze del potere di Kiev, per poi aggiungere che l’amministrazione Biden dà l’impressione di non volere “guardare dietro il sipario a Kiev per il timore di vedere la corruzione” dilagante in un paese “dove abbiamo investito così tanto”.

Il New York Times e lo stesso Friedman lavorano in pratica per veicolare messaggi dell’apparato di potere americano e un articolo come quello citato va perciò analizzato con estrema attenzione. Quello che trapela chiaramente è tuttavia il malumore che circola a Washington per la direzione che ha preso il conflitto. Sul versante opposto, la questione si potrebbe collegare alla relativamente insolita intervista rilasciata da Zelensky al giornale di Hong Kong, South China Morning Post, dove ha espresso l’auspicio di parlare con il presidente cinese, Xi Jinping. Zelensky ha sollevato una fantasiosa ipotesi secondo la quale Pechino potrebbe in qualche modo convincere Mosca a fare marcia indietro in Ucraina. Al di là di tutto, sembra trasparire una certa disperazione per una guerra rovinosa e impossibile da vincere per Kiev. L’unica speranza è che per questa strada si arrivi a una possibile soluzione diplomatica.

La Russia, da parte sua, si è detta pronta a un accordo. Mercoledì lo ha confermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, rilanciando le legittime aspettative di Mosca. Anche se gli Stati Uniti avevano piani ben precisi nel provocare il conflitto, è chiaro che, alla luce della realtà sul campo, sarà sempre più difficile raggiungerli, mentre il popolo e i soldati ucraini vengono sacrificati sull’altare delle mire americane. “La Russia è pronta [per la pace] e l’Ucraina”, ricorda Peskov, “conosce benissimo le nostre condizioni”. D’altronde, conclude il braccio destro di Putin, “in un modo o nell’altro i nostri obiettivi saranno alla fine raggiunti”.

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