La stampa americana ha rivelato nei giorni scorsi un certo cambiamento dell’attitudine dell’amministrazione Biden nei confronti del regime ucraino del presidente Zelensky. Washington avrebbe cioè fatto pressioni su Kiev per mostrare un atteggiamento più possibilista verso un eventuale negoziato diplomatico con la Russia. La notizia deve essere valutata con estrema prudenza, ma si inserisce senza dubbio in un clima generale caratterizzato da crescenti preoccupazioni per le conseguenze economiche e sociali del conflitto provocato dall’Occidente. Se davvero emergeranno spiragli almeno per un cessate il fuoco, saranno probabilmente le dinamiche militari sul campo a stabilirlo, forse in seguito a un’imminente battaglia nella regione di Kherson, propagandata sempre più dai media ufficiali come uno snodo decisivo della guerra in corso.

 

Nel fine settimana è stato il Washington Post a scrivere di come il governo USA stia “incoraggiando in forma privata” Zelensky a dare prova di “apertura al negoziato” con Mosca e a fare marcia indietro sul rifiuto di trattare fino a che Putin rimarrà alla guida della Russia. Messo in questi termini, l’invito sembra ragionevole. Tuttavia, il giornale di Jeff Bezos aggiunge una precisazione importante, basandosi sulla testimonianza dei soliti “anonimi funzionari” governativi.

I solleciti rivolti al regime di Kiev non puntano tanto a convincere Zelensky a sedersi al tavolo del negoziato con Putin, ma rappresentano un “tentativo calcolato” di garantire all’Ucraina un appoggio prolungato da parte dei paesi occidentali, le cui popolazioni sono sempre meno disposte a sacrificarsi per un conflitto che minaccia di durare anni. A prima vista, la “rivelazione” del Post potrebbe rientrare nella campagna di disinformazione che accompagna le operazioni militari in Ucraina. Tanto per cominciare, Zelensky è poco più di un burattino di Washington e se il desiderio americano fosse realmente di aprire un canale di comunicazione tra Kiev e Mosca o, per lo meno, di vedere il regime ucraino più possibilista nei confronti di un negoziato, sarebbe sufficiente recapitare all’ex comico televisivo un ordine con le indicazioni del caso.

Tra le righe del finto scoop del Washington Post si può comunque leggere un messaggio che vale la pena provare a decifrare. Per farlo bisogna partire da due premesse che fotografano la situazione attuale sul fronte ucraino e che, in parallelo, spiegano il dilemma in cui si dibatte l’amministrazione Biden a causa delle proprie decisioni. Da un lato, gli Stati Uniti e, ancor più, i loro alleati NATO in Europa auspicano una qualche soluzione del conflitto in tempi brevi, mentre dall’altro non possono permettersi di allentare la presa per evitare di perdere la faccia e, in ogni caso, non prima di avere creato un meccanismo che permetta di vendere la sconfitta in Ucraina come una vittoria strategica.

Un commento alla notizia pubblicato domenica dal britannico Guardian aiuta a fare un po’ più di luce sui motivi del presunto atteggiamento americano nei confronti di Zelensky. Parlando degli “inviti” a mostrare maggiore apertura per il negoziato, il giornale di Londra scrive: “Per il governo ucraino, la richiesta USA implica il disconoscimento della retorica che per parecchi mesi si è basata sulla necessità di una sconfitta militare decisiva da infliggere alla Russia, così da garantire la sicurezza a lungo termine dell’Ucraina”. Un messaggio quest’ultimo, continua discutibilmente l’articolo del Guardian, che trova “ampi consensi tra la popolazione ucraina”, la quale teme che la Russia possa “tentare nuovamente in futuro di invadere il paese”.

In altre parole, il regime ucraino rischia di trovarsi spiazzato sul fronte interno dalle “richieste” americane. Richieste che, a loro volta, potrebbero avere come obiettivo quello di spingere Zelensky a fare il primo passo verso il negoziato, in modo da farla sembrare un’iniziativa autonoma del presidente ucraino, confermando così l’impressione di una fermezza apparente da parte dei suoi sponsor occidentali.

Un passaggio che si legge in un’altra analisi della notizia, questa volta della Reuters, sembra confermare sia l’urgenza di una soluzione diplomatica sia il disagio occidentale – e ucraino – ad ammetterlo apertamente. In questo caso le responsabilità dell’aggravarsi della situazione vengono ribaltate sul Cremlino. Putin, infatti, “non fa per ora sul serio a proposito dei negoziati”, ma, allo stesso tempo, il governo USA ammette che l’intransigenza di Zelensky “ha generato preoccupazione in alcuni paesi europei, in Africa e in America latina, dove gli effetti della guerra sui prezzi del cibo e dei carburanti si fanno sentire più pesantemente”.

In gioco, soprattutto per Washington, non c’è solo la faccia, ma gli obiettivi strategici alla base del conflitto in Ucraina e dell’offensiva anti-russa. Al di là della propaganda che vuole una Russia sull’orlo del tracollo militare, politico ed economico, i governi occidentali sono ben consapevoli che la crociata pro-Kiev è destinata al fallimento, col rischio di trascinare con sé l’unità dei paesi NATO e la stessa tenuta del sistema industriale europeo. La via d’uscita è perciò molto difficile da trovare, come testimoniano anche le catastrofiche previsioni fatte nelle scorse settimane da personalità come il segretario generale NATO, Jens Stoltenberg, o dagli ambienti militari americani sulla catastrofe che si abbatterebbe su Stati Uniti ed Europa, così come sui “valori” occidentali, in caso di successo di Putin in Ucraina.

In molti stanno ipotizzando che il momento decisivo potrebbe arrivare dalla battaglia per la città e la regione di Kherson, per ora alle prime avvisaglie. L’eventuale riconquista da parte di Kiev di questo territorio, annesso dalla Russia dopo il referendum dello scorso settembre, metterebbe nelle mani del regime di Zelensky un’arma fondamentale per costringere il Cremlino a fare concessioni e acconsentire a un accordo di pace favorevole all’Ucraina. Questo esito è tuttavia improbabile. Kherson è a tutti gli effetti territorio russo e Mosca farà quanto necessario per difendere il nuovo status quo, anche perché questa regione garantisce le forniture idriche della Crimea, nonché un collegamento di terra tra la penisola e la Russia.

È possibile quindi che Zelensky e i suoi sostenitori occidentali puntino tutto su un’offensiva a Kherson, incoraggiati anche dalle voci di un possibile imminente ritiro delle forze russe. La speranza potrebbe però essere ancora una volta pericolosamente illusoria e anche alcuni media ufficiali, come la BBC, avvertono che la strategia russa sembra una trappola per trascinare nella battaglia le forze armate ucraine pesantemente sotto-equipaggiate.

Un’altra “rivelazione” apparsa nei giorni scorsi sulla stampa “mainstream” americana è da ricondurre alle discussioni interne all’amministrazione Biden sulla crisi ucraina. Secondo il Wall Street Journal, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, in questi mesi avrebbe intrattenuto colloqui segreti con esponenti di altissimo livello del governo russo, come il consigliere di Putin per la politica estera, Yuri Ushakov, e il segretario del Consiglio per la Sicurezza nazionale, Nikolai Patrushev.

La notizia non è stata ancora confermata né da Washington né da Mosca, ma è ragionevole pensare che le discussioni siano proseguite nonostante il gelo dei rapporti tra USA e Russia. Se è poco sorprendente che Sullivan e le sue controparti continuino a parlarsi nel pieno del conflitto, più indicativo può essere un dettaglio riportato nello stesso articolo del Journal. Il giornale di New York spiega cioè che Sullivan è tra i membri dell’amministrazione Biden che insistono per tenere aperti canali di comunicazioni con il Cremlino, mentre “molti altri” sono contrari.

La compattezza del governo USA sull’Ucraina è quindi solo apparente e anche all’interno dell’esecutivo esistono divisioni sull’approccio alla guerra e sulla soluzione da perseguire. A decidere quali posizioni finiranno per prevalere saranno gli sviluppi del prossimo futuro, da quelli sul campo in Ucraina alle conseguenze economiche in Occidente e, ancora prima, i risultati delle elezioni di “metà mandato” di martedì che prospettano una débacle per il Partito Democratico e il presidente Biden.

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