La conferenza annuale dei conservatori americani (“Conservative Political Action Conference” o CPAC) è stata nel fine settimana il primo appuntamento politico di rilievo per tastare il terreno in casa repubblicana a meno di un anno dall’inizio delle primarie per le presidenziali del 2024. L’ex presidente Donald Trump è per il momento il favorito quasi indiscusso e il suo discorso alla chiusura dell’evento tenuto nel Maryland ha confermato in larga misura la strategia vincente già impiegata nel 2016. Populismo e anti-comunismo restano gli elementi centrali di una campagna elettorale che trae beneficio in primo luogo dalle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione democratica di Joe Biden.

 

In un intervento durato poco meno di due ore, l’ex presidente ha riproposto l’argomento su cui si era concentrato nelle uscite pubbliche delle ultime settimane, vale a dire la guerra in Ucraina e il rischio di uno scontro armato diretto tra Russia e NATO. Trump ha denunciato i “guerrafondai” che occupano le posizioni di potere a Washington, rilanciandosi come l’unico leader americano in grado di garantire la pace in Ucraina e di evitare – “molto facilmente” – la Terza Guerra Mondiale.

L’apparente appello al pacifismo dei suoi discorsi più recenti nasconde una realtà diversa e che era in qualche modo già emersa nelle prime fasi della sua presidenza. In primo luogo, Trump prospetta contemporaneamente una via d’uscita diplomatica dalla crisi russo-ucraina e un irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti nei confronti della Cina. In ultima analisi, l’identificazione della minaccia cinese alla supremazia globale americana, oltre a essere condivisa in pieno dall’amministrazione Biden, rischia di portare anch’essa a una guerra rovinosa nel prossimo futuro. Le differenze di politica estera tra l’attuale inquilino della Casa Bianca e il suo predecessore sono perciò principalmente di natura tattica.

D’altra parte, l’idea del rilancio degli USA riassunto nello slogan “Make America Great Again” (MAGA) si basa, anche se non solo, su un ulteriore impulso alle spese militari, così da ripristinare l’autorità degli Stati Uniti su scala internazionale. Questo proposito trumpiano è assieme illusorio e pericoloso, ma rappresenta un percorso quasi obbligato per intercettare sia le istanze isolazioniste/ultra-nazionaliste del Partito Repubblicano sia il sostegno di quel settore dell’apparato di potere americano che più sta a cuore a Trump, ovvero i vertici militari.

A livello immediato è ad ogni modo il consenso degli elettori che l’ex presidente sta cercando attraverso una retorica quasi pacifista. La pazienza degli americani per i ripetuti stanziamenti di armi e denaro al regime di Kiev si sta esaurendo rapidamente, così come stanno aumentando i timori per l’esplosione di un conflitto su larga scala in Europa con il coinvolgimento degli Stati Uniti. Come accadde nel 2016, Trump punta perciò a offrire un’alternativa a un sistema di potere ultra-screditato che minaccia di portare l’intera umanità verso un conflitto nucleare.

Un altro elemento cruciale è la promessa di difendere i popolari programmi sociali destinati ai redditi più bassi, come Medicare (assistenza sanitaria) e Social Security (pensioni). Il ridimensionamento di queste voci della spesa federale è notoriamente un obiettivo dell’establishment repubblicano, a conferma della spaccatura operata da Trump all’interno del partito con la promozione di politiche di stampo populista.

L’offerta politica dell’ex presidente resta comunque ben ancorata a destra nonostante le posizioni più a sinistra del Partito Democratico su alcune questioni di politica estera e, almeno in parte, sulla spesa sociale. Alle tirate contro la guerra, il “deep state” o i tagli ai programmi pubblici, Trump accompagna infatti quasi sempre attacchi retorici decisamente violenti contro il socialismo e il comunismo, assurdamente collegati alle politiche dell’amministrazione Biden e dei democratici.

Questa sorta di fissazione di Trump risponde a una strategia elettorale e politica ben precisa. Molti sondaggi hanno dimostrato negli ultimi anni come l’interesse soprattutto dei giovani americani per il socialismo, per quanto vagamente definito, sia in netta crescita e superi nel gradimento il capitalismo. Una predisposizione di questo genere offre in teoria spazi politici per un movimento di opposizione contro il sistema quanto meno di orientamento progressista, cosa di cui Trump è consapevole.

Da ciò deriva la necessità di screditare socialismo e comunismo, possibilmente associandoli a un Partito Democratico fissato con le questioni di genere e di razza. In altri termini, Trump e il suo movimento “MAGA” puntano a impedire che malcontento e frustrazioni diffuse tra la popolazione americana possano incanalarsi verso sinistra, ma per fare ciò è necessario offrire un qualche richiamo sui temi del pacifismo, della lotta ai poteri forti e della spesa pubblica. Ovviamente alternandolo a slogan e propositi di estrema destra, se non apertamente fascisti.

Questa apparente contraddizione rivela come al cuore del programma trumpiano resti la difesa del sistema capitalistico ultra-classista americano, sia pure depurato degli elementi “globalisti” e “neo-con” che proliferano in entrambi i principali partiti d’oltreoceano. Basti pensare alle divisioni tra le classi disagiate che Trump non manca di incitare, in particolare attraverso le consuete durissime denunce dell’immigrazione “illegale” o gli immancabili riferimenti all’elezione “rubata” del 2016, ma anche con nemmeno troppo velati riferimenti razzisti e anti-semiti.

Per la campagna elettorale di fatto già iniziata negli Stati Uniti è dunque praticamente certo che Trump cercherà ancora una volta di proporsi come il candidato “anti-sistema” e la recente conferenza CPAC ne ha dato la conferma. L’organizzatore della conferenza conservatrice, Matt Schlapp, in un’intervista alla testata on-line Politico.com ha affermato a questo proposito che dall’evento annuale “sono state rimosse” le organizzazioni legate a Wall Street e i grandi finanziatori, a beneficio del “movimento populista”.

Per estensione, queste caratteristiche dovrebbe averle anche il Partito Repubblicano di Trump o, per lo meno, questa è l’immagine che l’entourage dell’ex presidente intende proiettare. Spiegando la spaccatura prodotta da Trump nel partito, lo stratega repubblicano Alex Bruesewitz ha affermato sempre al sito Politico.com che “tutte le principali conferenze che si rivolgono alla base [del partito] sono orientate verso il [movimento] MAGA e la gente è con Trump”, mentre “i finanziatori sono con l’establishment repubblicano di Washington”.

Nel corso della conferenza del fine settimana si è tenuto il solito sondaggio informale tra i partecipanti per testare la popolarità degli aspiranti alla Casa Bianca. Trump ha ottenuto il 62% dei consensi, coerentemente con l’atmosfera dell’evento, trasformato a tutti gli effetti in una tappa della campagna elettorale dell’ex presidente. Dietro a quest’ultimo si è posizionato il governatore della Florida, Ron DeSantis, ma con appena il 20% delle preferenze espresse.

DeSantis non ha comunque ancora formalizzato la sua candidatura e non ha partecipato alla conferenza nel Maryland. Nelle simulazioni di questi mesi, è stato quasi sempre rilevato un vantaggio di DeSantis in caso di sfida a due con Trump per la nomination repubblicana. Tuttavia, un ampio campo di partecipanti alle primarie potrebbe favorire l’ex presidente, come nel 2016, vista la dispersione del voto che determinerebbe. L’unico che al momento sembra potere contrastare Trump è appunto il governatore della Florida, anche perché teoricamente in grado di fare appello a entrambe le anime del Partito Repubblicano.

Per il momento hanno ufficializzato la loro candidatura solo l’ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, e l’imprenditore di origine indiana, Vivek Ramaswamy. In attesa ci sarebbero però anche altri aspiranti, come l’ex vice di Trump, Mike Pence, e l’ex segretario di Stato, Mike Pompeo.

Se quello repubblicano resta apparentemente il partito di Trump, le variabili da qui all’apertura delle urne sono molteplici, non da ultima la possibile grana legale derivante dal ritrovamento di documenti classificati nella sua residenza in Florida da parte dell’FBI. La carta vincente dell’ex presidente resta comunque l’impopolarità dell’attuale amministrazione e della guerra russo-ucraina che Biden continua ad alimentare nonostante la crescente opposizione nel paese. Se la direzione della Casa Bianca dovesse restare quella degli ultimi dodici mesi e l’equilibrio interno ai repubblicani variare di poco, non è inverosimile che Trump, otto anni dopo, possa ritrovarsi un’altra clamorosa vittoria servita su un piatto d’argento dal Partito Democratico.

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