Il presidente in carica Recep Tayyip Erdoğan affronterà tra meno di due settimane il primo ballottaggio dalla sua ascesa al potere in Turchia più di due decenni fa. Il 28 maggio andrà in scena la sfida con il leader dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroğlu, a lungo dato come favorito dai sondaggi, talvolta addirittura come possibile vincitore già al primo turno. A sfiorare il successo immediato è stato invece Erdoğan, il quale, nonostante la flessione rispetto alle passate elezioni, continua a conservare una certa popolarità nel paese, non da ultimo grazie all’inserimento in pianta stabile della Turchia nelle nuove dinamiche strategiche ed economiche in corso nello spazio eurasiatico.

 

Secondo i dati ufficiali, Erdoğan ha ottenuto il 49,5% dei consensi contro il 44,9% del suo rivale, con una differenza di oltre 2,5 milioni di voti. Senza il superamento della soglia del 50%, il sistema elettorale turco prevede appunto un secondo turno di ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di preferenze. Staccatissimo col 5,2% è stato invece il candidato nazionalista dell’alleanza “Ancestrale” (ATA), Sinan Oğan, i cui sostenitori potrebbero però giocare un ruolo decisivo al secondo turno. L’affluenza è stata altissima, cioè appena inferiore all’88%, a conferma in qualche modo dell’importanza anche a livello internazionale dell’appuntamento elettorale turco.

In linea generale, il risultato rappresenta almeno in parte una débacle per l’alleanza “della Nazione”, la coalizione di opposizione formata da sei partiti che sosteneva per la presidenza il leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP). Il deterioramento della situazione economica e, secondo i media ufficiali in Occidente, la deriva autoritaria sotto la guida di Erdoğan e il suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) avevano creato un clima quasi letale per il presidente in carica, spianando possibilmente la strada al ritorno al potere dei kemalisti.

Se a Erdoğan veniva dato comunque il beneficio del dubbio, visto anche il recupero evidenziato dai sondaggi nell’immediata vigilia del voto, sembrava invece più che probabile la conquista della maggioranza in parlamento da parte dell’opposizione. L’AKP e i suoi alleati (“Alleanza Popolare”) dovrebbero al contrario ottenere circa 322 seggi sui 600 totali, mentre la coalizione che appoggia Kiliçdaroğlu si sarebbe fermata a 213. I seggi rimanenti sono andati all’alleanza di sinistra filo-curda “Lavoro e Libertà”, formata dai Verdi e dal Partito dei Lavoratori della Turchia.

L’attenzione internazionale per il voto turco si è concentrata e, verosimilmente, in vista del ballottaggio continuerà a concentrarsi soprattutto sui possibili cambiamenti degli indirizzi di politica estera in caso di sconfitta di Erdoğan. L’uscita di scena del presidente, in altre parole, determinerà un riorientamento verso Occidente da parte del CHP e dei suoi alleati? Alcune dichiarazioni di Kiliçdaroğlu in campagna elettorale e il programma della sua coalizione, assieme alla tradizionale attitudine filo-occidentale dei kemalisti, avevano lasciato intendere una svolta di questo genere. La realtà potrebbe essere tuttavia più complessa.

Per semplificare, il piano di Kiliçdaroğlu prevede un’adesione più stretta alle posizioni della NATO, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire anche in merito al conflitto ucraino. Erdoğan, invece, promette di mantenere fede al principio dell’autonomia strategica che ha permesso alla Turchia di raccogliere i benefici di un approccio equidistante tra gli USA e la NATO da una parte e Russia, Cina e Iran dall’altra.

È quasi superfluo aggiungere che quest’ultimo fattore è stato determinante per la scelta occidentale di appoggiare l’opposizione turca e di adoperarsi per la liquidazione di Erdoğan. Il direttore della testata on-line Middle East Eye, David Hearst, ha spiegato a questo proposito che “la vera ragione dell’ostilità occidentale nei confronti di Erdoğan non ha nulla a che vedere con l’autoritarismo o le restrizioni alla libertà di stampa”. Le ragioni sono da ricercare piuttosto nel fatto che “Erdoğan ha trasformato la Turchia in uno stato [realmente] indipendente con un potente esercito a cui non si può automaticamente imporre diktat”.

In un quadro più ampio, sostiene l’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar sul suo blog Indian Punchline, la mobilitazione occidentale per la sconfitta di Erdoğan è da collegare al suo ruolo di spicco nella promozione dei principi del “multipolarismo” e della “autonomia strategica” nei nuovi equilibri globali. Lo stesso ex ambasciatore indiano sottolinea come il riallineamento strategico su tutta la linea della Turchia in caso di vittoria di Kiliçdaroğlu sia in larga misura un’illusione.

Anche con Kemal Kiliçdaroğlu alla presidenza, è probabile che la Turchia non si allontanerà di molto dalla rotta tracciata in questi anni da Erdoğan. Il processo favorito da quest’ultimo non dipende peraltro da un’inclinazione o da interessi personali, ma è una dinamica comune ai paesi in grado di trarre vantaggi dai nuovi scenari globali grazie alla loro posizione geo-strategica. I cambiamenti che hanno interessato la Turchia sotto la regia di Erdoğan sono per molti versi gli stessi che stanno interessando i regimi del Golfo Persico, a cominciare dall’Arabia Saudita, e sono legati sostanzialmente al declino dell’Occidente e all’emergere di fenomeni multipolari, guidati in larga misura da Cina e Russia, che favoriscono l’integrazione eurasiatica.

Proprio Kiliçdaroğlu ha chiarito più volte durante la campagna elettorale l’intenzione di continuare a coltivare buoni rapporti con la Russia, malgrado l’obiettivo dichiarato di rilanciare le relazioni con Stati Uniti ed Europa. Nella mentalità occidentale odierna da “gioco a somma zero”, è sempre più difficile comprendere e tollerare scelte di politica estera equilibrate da parte di potenze regionali, soprattutto se alleati formali nel quadro NATO come appunto la Turchia.

È del tutto probabile che un Kiliçdaroğlu presidente possa favorire la rapida ratifica dell’ingresso nel Patto Atlantico della Svezia o al limite sospendere l’utilizzo del sistema anti-missilistico russo S-400. Ancora, i rapporti con l’UE potrebbero tornare su livelli accettabili, ma è difficilmente immaginabile che Ankara getterà in mare i frutti della partnership con la Russia o i progetti di sviluppo e di scambi commerciali con la Cina.

Oltre all’esplosione del turismo russo verso la Turchia, va tenuto ad esempio in considerazione che il gas russo rappresenta il 45% del totale importato da Ankara e che proprio grazie a Mosca la Turchia punta a diventare una sorta di “hub” del gas russo diretto a occidente. L’appena inaugurata centrale nucleare di Akkuyu è inoltre il risultato della collaborazione con Mosca e, più in generale, è la competitività del sistema economico turco a dipendere dall’energia a basso costo garantita dalla Russia. Non si comprende dunque, per citare ancora l’ex diplomatico indiano Bhadrakumar, la ragione per cui Kiliçdaroğlu dovrebbe “emulare la follia del governo tedesco”, troncando le relazioni in ambito energetico con Mosca al prezzo della “de-industrializzazione” del proprio paese.

Emblematica dell’attitudine di Kiliçdaroğlu è la promessa di normalizzare i rapporti con Damasco, così da mettere fine al conflitto in corso dal 2011 e alleggerire l’economia turca rispedendo oltre il confine meridionale milioni di profughi siriani. La fine formale delle ostilità tra Turchia e Siria è infatti un punto centrale del programma dell’opposizione. Nonostante la ferma contrarietà di Washington, su questo argomento Kiliçdaroğlu e la sua coalizione sono su posizioni più radicali anche rispetto a Erdoğan, che sta infatti perseguendo un processo di distensione graduale con il governo del presidente Assad.

L’elemento più importante delle politiche eurasiatiche di questi anni, che nemmeno un’eventuale presidenza Kiliçdaroğlu potrà permettersi di invertire, è in ogni caso il posizionamento della Turchia al centro delle rotte commerciali che collegano l’Europa all’Asia. Un ruolo, quest’ultimo, che costituisce un’attrattiva formidabile per il capitalismo turco, viste le potenzialità che implica in termini di investimenti dall’estero e di sviluppo economico.

Va ricordata infine anche l’attitudine complessiva della popolazione turca nei confronti della Russia o del conflitto in Ucraina. Secondo i sondaggi, la stragrande maggioranza dei turchi considera Mosca come un partner affidabile e gli Stati Uniti come un nemico. Di fronte a una realtà di questo genere, è perciò improbabile che un eventuale governo guidato dall’opposizione anti-Erdoğan in Turchia possa decidere, tra l’altro, di saltare sul carro della NATO nella guerra in corso o di imporre le sanzioni unilaterali decise da Washington e Bruxelles.

In definitiva, se anche Erdoğan dovesse uscire clamorosamente di scena dopo il ballottaggio del 28 maggio, a decidere della sua sorte non saranno la deriva autoritaria né tantomeno l’allontanamento dalla NATO e dall’Occidente. È piuttosto la precaria situazione economica a pesare sul presidente, ma, proprio per questo, l’eventuale anche se tutt’altro che scontato avvicendamento con Kiliçdaroğlu difficilmente vedrà l’abbandono, secondo il modello suicida già scelto dall’Europa, di quelle politiche che, guardando a Mosca e a Pechino, saranno in grado di garantire lo sviluppo della Turchia e il suo ruolo di crocevia tra due continenti.

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