di Maura Cossutta

Il tema delle cure ai neonati molto prematuri non c’entra nulla con l’aborto. E’ questa la prima cosa che si deve sottolineare. Si parla infatti di quei casi in cui la gravidanza di una donna si interrompe prima del tempo, molto prima della fine normale di gestazione e si parla di neonati che comunque vengono alla luce dopo un parto vero e proprio. Parti prematuri, aborti spontanei, quindi, che nulla hanno a che vedere con i cosiddetti aborti terapeutici dopo la ventesima settimana. La questione è molto rilevante e complessa e viene discussa da anni in tutto il mondo, nella comunità scientifica internazionale. Infatti i progressi della medicina neonatale e lo sviluppo delle tecnologie hanno prodotto risultati importanti nel miglioramento dell’assistenza neonatale e hanno mutato le condizioni di sopravvivenza di questi neonati, fino a ieri del tutto impossibili e anche impensabili. Il destino di questi neonati era solo affidato alla natura, senza possibilità di intervenire. Oggi esistono casi, statistiche – anche se molto scarse, giova ricordarlo - che vengono studiate, analizzate, per cercare risposte, per trovare indicazioni utili a chi, in sala parto, deve decidere cosa fare, spesso in una manciata di secondi. Il tema è: in questa “zona grigia” - tra le 22 e le 25 settimane di gestazione - come ci si deve comportare? Cosa vuol dire “capacità vitale” del neonato? Fino a che punto, una volta rianimato un neonato che nasce con degli indici di possibilità di vita autonoma, si devono continuare le cure intensive? Sono cure “ordinarie” o sono comunque cure “sperimentali”? Ma soprattutto: queste cure sono davvero successi rispetto alla tutela della vita e della dignità del neonato o rappresentano la prevaricazione della tecnica, fine a se stessa?

Rita Levi Montalcini, che di scienza se ne intende, di fronte allo sviluppo prepotente delle scoperte tecnologiche ha avuto il coraggio e la responsabilità di ammonire che “non tutto quello che si può fare, si deve fare”. C’è sempre un limite che il medico, in scienza e coscienza, non deve superare, proprio per non sconfinare nella sperimentazione fine a se stessa. Si deve rianimare, quindi, se il neonato mostra segni di possibilità di sopravvivenza, ma non si deve mai sconfinare nell’accanimento terapeutico.

Da qui era partito il Gruppo di lavoro tecnico, con la presenza dei Presidenti di tutte le Società scientifiche, che Livia Turco ha voluto istituire presso il Ministero della Salute nell’aprile scorso. Una scelta molto precisa, finalizzata innanzitutto a sollecitare la responsabilizzazione della nostra comunità scientifica per un confronto, a partire dal criterio rigoroso delle più aggiornate evidenze scientifiche. Un lavoro “tecnico”, che doveva valutare se fosse possibile arrivare a formulare Raccomandazioni rivolte ai servizi, agli operatori, che da una parte troppo spesso sono lasciati soli ma che anche, dall’altra, troppo spesso non si sentono sollecitati al confronto e alla valutazione del loro operato.

Il documento è stato infine prodotto, sottoscritto all’unanimità da tutti i componenti del Gruppo di lavoro e inviato come contributo del Ministero della Salute al Consiglio Superiore di Sanità, a cui è stato richiesto, sugli stessi temi, un formale parere. Cosa dice il documento? Che si deve perseguire il miglioramento dell’assistenza neonatale senza sconfinare nell’accanimento terapeutico. Che i genitori vanno sempre informati e coinvolti nelle decisioni. Che quindi il medico non può imporre le scelte che derivano dalle sue convinzioni etiche o religiose, ma deve informare correttamente e obiettivamente dei rischi e delle possibilità. Che sotto la 23 settimana la sopravvivenza al di fuori dell’utero è del tutto eccezionale e che a partire dalla 25 settimana vi è elevata probabilità di sopravvivenza, anche se dipendente da cure intensive.

Raccomandazioni “tecniche”, ma che presuppongono come assolutamente ineludibile quello che deve avvenire “prima” della tecnica. E cioè l’approccio di rispetto e di profonda umiltà di fronte a dilemmi etici che coinvolgono così drammaticamente la vita non solo di questi neonati, ma anche dei loro genitori.

Poi è venuta “la Giornata per la vita”, che evidentemente ha scaldato le anime e ha chiamato a raccolta i fedeli. Ginecologi universitari – che pure facevano parte del Gruppo di lavoro del Ministero - hanno preso carta e penna per presentare un loro documento. Desiderio di visibilità? Voglia di contare? Oggi arrivano le smentite, i “distinguo”. Il prof. Moscarini – uno di quelli che hanno sottoscritto il documento del Ministero - precisa che è stato travisato, ma ci tiene a ribadire che è un ginecologo obiettore della legge 194. E qui sta allora il punto. Quando la Chiesa chiama, bisogna rispondere e partecipare alla crociata. Quella per la vita “fin dal concepimento”, contro l’aborto, contro la legge 194. E il tema delle cure neonatali ai nati molto prematuri viene usato, strumentalizzato, diventa una succulenta occasione per rispondere al Papa: “Noi ci siamo”!

Si è voluto allora mischiare questo tema con l’aborto terapeutico, per dare una mano a chi vuole imporre rigidità temporali alla legge, per espropriare la donna della sua scelta. Un uso strumentale, “totus politicus”, di questi neonati, che non fa certo onore all’autonomia e alla deontologia di questi scienziati. Ma tant’è, si sa, per essere primari o direttori di cattedra oggi bisogna schierarsi. Bisogna essere obiettori, dichiararlo, con naturalezza e senza vergogna.

La 194 è apertamente sotto attacco, nonostante sia una legge della Repubblica e sia stata confermata da due referendum popolari, nonostante sia chiarissima e lungimirante, anche proprio negli articoli relativi all’aborto terapeutico. E’ scritto, infatti, che qualora il feto dimostri capacità di vita autonoma, va rianimato e l’aborto si può fare solo per gravi problemi di vita della donna. I legislatori giustamente non avevano fissato una data, non solo perché avevano affidato allo sviluppo della scienza la definizione di questa possibilità, ma anche perché l’interruzione di gravidanza può avvenire pure in un’età gestazionale ove normalmente si prefigura vita autonoma, ma magari quel feto è portatore di tali malformazioni che comunque non sopravviverebbe.

Di che parlano allora? Cosa vogliono? L’intento è quello di scardinare l’impianto della legge, togliendo il primato della scelta alla donna, restringendo i tempi per impedire la possibilità concreta della diagnosi prenatale, colpevolizzando le donne, considerate soltanto come “contenitori di sacralità”. Un orrore, ipocrita, immorale, che preferisce salvare il principio religioso della Vita e condannare a morte le donne costrette all’aborto clandestino. Ci provino allora, magari in questa stessa campagna elettorale. Con buona pace della Binetti, che ormai ritiene di avere le redini del Partito Democratico, la 194 non è negoziabile.

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