di Saverio Monno

Sin dagli esordi il Partito Democratico ha profondamente sconvolto il sistema politico italiano. Già solo l’annuncio dell’imminente confluenza dei più grandi partiti della maggioranza (DS e Margherita), in una nuova e “più coesa” forza politica, ingenerò i primi contraccolpi nei precari equilibri dell’Unione di Romano Prodi. Poi, la successiva realizzazione di quei progetti, finì per costringere la maggioranza ad un dualismo di vertice, sempre più ingombrante, tra lo stesso Prodi, presidente del PD, e Walter Veltroni che, nel frattempo, di quella nuova forza politica, era divenuto il segretario. Se però, la nascita del partito è ascrivibile al 14 ottobre del 2007, il vero terremoto sarebbe arrivato solo qualche tempo dopo. Nonostante le molteplici dichiarazioni di stima e di ammirazione per l’operato di Prodi, arrivava puntuale, infatti, la randellata. Il sindaco di Roma, pecca di protagonismo e, intervenuto ad Orvieto, bacchetta una maggioranza litigiosa e ballerina, annunciando della sua intenzione di correre da solo. “Quale che sia il sistema elettorale”, alla prossima chiamata alle urne, “il Pd si presenterà con le liste del Partito democratico. Spero che FI trovi il coraggio di fare altrettanto.” Con queste parole, lo scorso 19 Gennaio, il segretario del PD avviava al patibolo l’Unione, che di lì a poco sarebbe stata giustiziata in senato dalla sua corrente più conservatrice, e sfidava Berlusconi a singolar tenzone. Ma quella della “corsa solitaria” si è rivelata ben presto una semplice spacconata e, archiviata l’autosufficienza della prima ora, il numero uno del PD, in piena deriva centrista, ha messo in piedi la sua piccola armata Brancaleone. Trova un accordo con Follini che, dopo tredici anni di convivenza con Berlusconi, riceve in “premio” l’incarico di responsabile del Pd per l'informazione. Quindi si fa corteggiare da un altro Marco. Pannella. Gli promette la luna e le stelle, poi cerca di ritrattare, ma il vecchio radicale lo costringe a mantenere la parola…a suon di sathiagrà! Visto però, che il peso elettorale dei due navigati parlamentari non è particolarmente rilevante, ne studia un’altra. Decide l’apparentamento con Di Pietro. L'ex pm è sempre rimasto fedele al centrosinistra, in più costituisce un bottino che, stando ai sondaggi, dovrebbe garantire al PD un introito stimato attorno al 4-5%.

Voleva “resettare il paese” Walter. Ma dovrà accontentarsi della certezza di aver spaccato a metà il popolo dell’Unione e di aver dato vita ad un ricettacolo di contraddizioni, partorito da qualche “ma anche” di troppo e gettato nella mischia per far numero, in barba alle critiche sulle coalizioni eterogenee. Un pot-pourri d’incoerenze, che vorrebbe porsi quale sintesi tra posizioni progressiste e conservatrici, tra laici e ferventi cattolici, operai e dirigenti di confindustria. In realtà è un Veltroni che stenta a trovare una sintesi anche delle sue stesse posizioni, attanagliato dai dubbi, indeciso tra l’americano “Yes, we can!” di Obama ed un più mediterraneo “Se puede hacer!” in onore del successo elettorale di Zapatero. Auspicava di poter dar vita ad un nuovo corso per la sinistra italiana, ma per far questo avrebbe dovuto dirla, o almeno pensarla, “qualche cosa di sinistra”. E se la scelta di correre da solo non è poi una gran novità per un diessino (anzi, se guardiamo alla storia degli ultimi 15 anni, è stata la variabile che ha sempre determinato il successo elettorale del centrodestra) a lasciare di stucco è il tema delle candidature.

“Quando i partiti si fanno caste di professionisti, la principale campagna antipartiti viene dai partiti stessi”. Era il convincimento profondo che ha ispirato tutta una campagna elettorale, imperniata sul diffondersi dell'antipolitica e sulla speranza per l’avvento di una “politica del fare”. Peccato si trattasse di semplici preziosismi retorici che celavano la realtà di un’operazione biecamente affaristica e demagogica, figlia del peggior corporativismo. Nell’ottica del quale, in perfetto stile commedia dell’arte, il “sindaco di tutti” annunciava le candidature de: “la precaria”, “l’operaio”, “l’operatrice di call center”, “il dirigente di confindustria e nemico degli operai”…Come se, per attuare politiche favorevoli ad un determinato segmento della società, fosse sufficiente portare in parlamento un “campione” di quello stesso segmento.

E’ un momento difficile per la politica italiana, un momento caratterizzato da una diffusa sfiducia nella gestione della cosa pubblica. Tante sono le delusioni e troppo c’è da recriminare, i rifiuti in Campania, i piccoli e grandi scandali della sanità, i processi-farsa ai politici, i morti sul lavoro, la drammatica situazione economica. E’ l’Italia della “Casta” di Rizzo e Stella, è l’Italia del V-day di Beppe Grillo, è l’Italia degli indecisi, dei delusi, di chi vive di stenti. In un quadro del genere, il leader della forza politica più rappresentata nel governo uscente, non ha trovato altro di più costruttivo da fare, che saltare su e giù dal predellino di un pullman, in una corsa per le province del paese.

E’ un Veltroni che insiste nel volersi presentare alle urne come l’”homo novus” della politica italiana, ma fino ad ora ha solo proposto una scialba imitazione di Berlusconi. La presentazione di un programma elettorale degno del grande piazzista di Arcore (zeppo di chiacchiere ad effetto, ma povero di risposte ai problemi della vita reale) ed il suggerimento ai suoi sostenitori di “convincere cinque amici a votare PD” (che campeggia sul sito del partito) ne sono l’emblematica riprova.


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