di Domenico Melidoro

Qualsiasi considerazione sull'esito delle elezioni politiche del 9 e 10 aprile deve partire dalla riflessione sull'esiguo margine di vantaggio di cui Romano Prodi dispone nei confronti dell'avversario Berlusconi in una delle due Camere. L'Unione ha conquistato il 49,8 % dei consensi alla Camera contro il 49,7 % della Casa delle libertà. Tuttavia, a causa della sciagurata legge elettorale, fortemente voluta dalla destra di Berlusconi per cercare di limitare i danni di una battaglia in cui pochi avrebbero scommesso sulla riconferma a Palazzo Chigi del Cavaliere, l'Unione dispone di 347 deputati che, paragonati ai 283 del Centro-destra, rappresentano una accettabile garanzia di stabilità e governabilità. Il discorso si fa più complicato se si passa a considerare i risultati del Senato, dove la coalizione guidata da Prodi ha ottenuto il 49,2% dei suffragi e 158 seggi, a fronte dei 156 eletti della CDL che però ha ottenuto il 49,9% dei consensi. Eppure, sembrerà banale dirlo, in democrazia rappresentativa è legittimato a governare chi ottiene almeno un seggio in più dell'avversario e Prodi, avendo ottenuto una (pur esigua) maggioranza in tutte e due i rami del Parlamento, ha le carte in regola per dare vita a un esecutivo che faccia uscire il Paese dal buio del quinquennio berlusconiano. Non possiamo nasconderci che governare un Paese cercando di assicurare stabilità alle istituzioni ed efficacia delle politiche pubbliche non è facile quando la coalizione che si deve guidare è composita, e si dispone solo di due senatori in più rispetto all'avversario. Eppure Prodi si è assunto l'onere di governare in questa situazione complessa che richiede da parte sua un notevole sforzo di sintesi e da parte dei suoi alleati un grande senso di responsabilità e di lealtà nei confronti degli impegni sottoscritti.

La costituzione da parte di Prodi di un governo capace di durare per un'intera legislatura è più di un diritto. Si configura piuttosto come un dovere, sia costituzionale sia morale, dal momento che, come ha scritto Ezio Mauro, "Prodi si è presentato agli elettori chiedendo di mandare a casa Berlusconi e di cambiare governo, per aiutare l'Italia a ripartire voltando pagina" (la Repubblica, 12 aprile 2006). Si tratta di un compito gravoso ma ineludibile, anche perché le alternative a disposizione del Professore sono solo due: da un lato la rinuncia ad assumere l'incarico di Premier creando le condizioni per un ritorno alle urne in un breve periodo di tempo; dall'altro l'accettazione delle proposta avanzata da Berlusconi e da altri centristi della CDL di costituire un "governo di larghe intese" che renderebbe possibile la governabilità di un Paese che, ai loro occhi, appare rovinosamente diviso in due.

La prima ipotesi appare francamente improponibile ed è stata subito accantonata da tutti perché effettivamente non sussistono le condizioni per ritenere invalide le elezioni del 9 e 10 aprile. La seconda ipotesi, vale a dire quella delle larghe intese, è assolutamente da rifiutare perché, oltre a rappresentare un cedimento all'ultima trovata di un Berlusconi che non vuol darsi per vinto, costituirebbe una mossa politica che un elettorato abituato ad un decennio e più di maggioritario non gradirebbe. Si tratterebbe del ritorno alla stagione del trasformismo e dell'immobilismo politico imposto dai governi centristi con la conventio ad excludendum delle forze progressiste. La formazione di un governo di larghe intese (vigorosamente rifiutata da tutti i leaders dell'Unione) si configurerebbe come l'esito conclusivo e deprecabile di quella legge elettorale che la CDL ha cambiato a pochi mesi dalle elezioni e che segna un notevole passo indietro rispetto a un sistema politico che, pur tra tutte le contraddizioni, si stava evolvendo in senso maggioritario.

Concordiamo in pieno con l'opinione di Giulio Anselmi che su La Stampa ha scritto che "chi parla di governo d'unità nazionale, dietro l'invocazione di superiori esigenze, lascia trapelare marmellate centriste" (la Stampa, 12 aprile 2006). Aggiungiamo che le larghe intese farebbero da paravento a politiche moderate che strozzerebbero inevitabilmente la voglia di cambiamento che ha animato una campagna elettorale nella quale sono stati in molti a chiedere una netta soluzione di continuità nei confronti del governo berlusconiano. E di queste aspirazioni non si può non tenere conto, soprattutto alle luce del positivo risultato delle forze a Sinistra dell'Ulivo, cioè PRC, Verdi e PdCI che nel complesso hanno ottenuto un lusinghiero 10,2 % alla Camera e addirittura l'11,3 % al Senato (per un totale di 72 deputati e 38 senatori).

Il processo di formazione del nuovo governo appare una procedura lunga e complessa che Prodi intende guidare con equilibrio ma anche con risolutezza. Al momento non sappiamo ancora quando il nuovo esecutivo sarà all'opera, ma sono in molti a chiedere di restringere i tempi. Il bisogno di conoscere il DPEF induce ad auspicare che Prodi presenti al più presto la sua squadra di governo in modo da rendere noto il modo in cui essa intende rendere possibile il superamento della grave situazione economica in cui il Paese versa ormai da anni. Eppure, si ha l'impressione che dovranno passare alcune settimane prima che Prodi possa assumere pienamente le funzioni di Premier. Infatti, tra insediamento delle Camere, elezione dei Presidenti delle Camere e del nuovo Presidente della Repubblica, i tempi non saranno brevi, tanto più che lo stesso Prodi non ha escluso la possibilità di ricevere l'incarico dal nuovo Capo dello Stato.

Comprendiamo bene che le scadenze istituzionali vanno rispettate, ma avvertiamo nello stesso momento la necessità di avere una guida autorevole per un Paese che vuole voltare pagina e si appresta ad affrontare una dura campagna referendaria per abrogare quella riforma federalista che costituisce uno dei lasciti più discutibili del trio Berlusconi-Bossi-Fini ai successori dell'Unione ed all'Italia tutta.

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