di Rosa Ana de Santis

La domanda é: sono delinquenti perché clandestini o clandestini perché delinquenti? La risposta forse l'ha fornita il Sindaco di Milano, Letizia Moratti, con le dichiarazioni xenofobe rilasciate al convegno "Per un'integrazione possibile”. Le parole della Moratti interpretano bene gli umori nazionali e, a sprezzo di tanta cronaca che pure avrebbe dovuto indicare diversi percorsi d’interpretazione del fenomeno, insistono come un’ossessione sul tema del reato di clandestinità. L’espulsione immediata di quanti sono irregolari e l’equazione di fondo tra irregolarità e delinquenza non tiene conto di alcuna attenta osservazione su quanto accade nel nostro Paese.

Chissà se la Moratti, quando parla di delinquenti stranieri in quanto clandestini, pensa alle domestiche che quasi tutte le famiglie hanno in casa, o non stia piuttosto pensando agli schiavi di Rosarno, o magari agli operai nordafricani arrampicati nel vuoto delle gru delle imprese edili del bresciano.

La clandestinità diventerebbe così il reato per eccellenza e l’espulsione immediata la panacea dei nostri mali. Nessuna valutazione degli effetti che questo avrebbe sull’economia italiana che ha imparato in fretta a guadagnare anche da questo sommerso venuto dal mare; soprattutto nessuna lettura sistemica di un fenomeno che va oltre i confini nazionali e che non potrà mai essere risolto in modo unilaterale e soltanto coercitivo da un paese lanciatosi, in modo schizofrenico,  tra l’avventura europeista e la rivendicazione autarchica dei confini.

L’immigrazione è uno dei risultati delle politiche economiche planetarie che hanno acuito tremendamente il già eccessivo divario tra Nord e Sud del mondo. Se il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse la colpa non può essere delle vittime di questo sconcio che cercano solo di sopravvivere. Il problema degli stranieri c’è come c’è in tutti i paesi che sono diventati mete di questo esodo continuo di poveri. In Italia, aldilà del terrorismo padano, non siamo ancora al caso delle banlieu parigine, teatri delle rivolte degli stranieri.

Non siamo ancora alla coincidenza esplosiva tra degrado e immigrazione, alla consacrazione ufficiale dei ghetti e delle gang e, proprio per questo, la politica dovrebbe lavorare alla prevenzione di questi fenomeni degeneranti che andranno ad aggravare la situazione delle periferie urbane, già impastate di malavita e ulteriormente fiaccate dalla povertà dell’ultima crisi.

Ma gli stranieri in Italia lavorano. A nero, precari e sfruttati, ma in larga parte hanno un accesso al lavoro. La seconda generazione d’immigrati, inoltre, non è ancora così numerosa e l’integrazione potrebbe avvenire sotto minor pressione sociale che non in altri paesi europei.  Il quadro del paese non è, ad oggi e numeri alla mano, quello dell’assedio permanente che denuncia la destra o la Lega Nord.

L’incognita del futuro ha certamente bisogno di misure politiche preventive forti e non della rimozione e della cancellazione dei migranti come elemento di fastidio o di disturbo. L’impresa, peraltro fallimentare, di cancellare i migranti, andrebbe piuttosto gestita dalla politica e non chiusa in carcere dalla polizia. Solo questo permetterà di cavalcare l’emergenza assecondando quella che sarà nella storia un’inevitabile e necessaria metamorfosi del nostro paese e della nostra stessa categoria di nazionalità.

A questo ci si prepara, a partire dai banchi scuola, invece di partorire la ghettizzazione delle classi ponte. Non togliendo il diritto di cura agli stranieri con la minaccia della denuncia. A questo ci si prepara con la comprensione che la clandestinità è una condizione speciale della cittadinanza e non la perdita dello status di cittadinanza o, addirittura, il pretesto per la cessazione dei diritti individuali come qualche fattaccio tricolore ha dimostrato. Le parole di qualche solerte sindaco leghista, l’assassinio di Abdul a Milano, i vigili di Parma e le botte a Emmanuel. Per tutti clandestini, senza che nemmeno lo fossero.

Ma su tutti il caso paradigmatico è quello di Rosarno. Venduto ai giornali come la rivolta di stranieri violenti non era altro che la protesta di nuovi schiavi, manovalanza del noto e tradizionale male italiano: gli affari della mafia e la loro convivenza pacifica con la società civile e con le istituzioni.  Di questo si trattava e non di neri o di stranieri facinorosi.

L’immigrazione esaspera mali già presenti. Acuisce ferite che già abbiamo addosso. Non è certamente soltanto esotismo e curiosità culturale. L’integrazione è un travaglio sociale. Ma l’opposizione ad essa è la garanzia scientifica di un paese che non avrà futuro. Iniziare a parlare dello Ius soli (diritto per nascita) e della fine dello status di cittadinanza legato al sangue, significa aprire la mente a un nuovo mondo di pensare l’Italia e gli Italiani. Dove l’inclusione diventi il cardine della nuova cittadinanza. Questo salverà la legge e impedirà che la condanna quasi mistica alla condizione dell’illegalità diventi il simbolo di un marchio antropologico sulla condizione di vita degli stranieri.

Stranieri come a voler dire fuori dalla società. E’ questo esonero e questa vacanza in una condizione indefinita del diritto, il marchio che trasforma la condizione dello straniero nella vita di un paria che per nascita rimane fuori dalla sistema sociale. Le banlieu iniziano così. Il degrado imposto e interiorizzato diventa nel tempo una pericolosa alleanza di condivisione. Terre senza Stato per nessuno, squallide e dimenticate, attaccate alle porte delle case dorate.

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