di Domenico Melidoro

Che la maggioranza su cui si regge il governo Prodi non sarebbe stata ampia e che soprattutto al Senato i voti dei Senatori a vita sarebbero stati necessari per la vita dell'esecutivo dell'Unione non è una novità. Eppure i primi mesi di vita del governo stanno rivelando una maggioranza in difficoltà che rischia di indebolirsi anche politicamente. Già le prime discusse e discutibili decisioni di Bersani sulle liberalizzazioni sono state oggetto di forti contestazioni soprattutto da parte dei tassisti, che nei provvedimenti voluti dal ministro diessino vedevano una sostanziale minaccia ai propri interessi di categoria. Ulteriori tensioni sono emerse a proposito del Dpef, contestato da diversi settori della Sinistra radicale, e sul rifinanziamento delle missioni militari dei contingenti italiani. Sembra che la maggioranza che sostiene Prodi sia in pericolo di sfaldarsi ogni volta che c'è da assumere una decisione importante. Figuriamoci cosa potrà succedere dopo la pausa estiva, quando con la manovra finanziaria si dovranno prevedibilmente compiere scelte politico-economiche impopolari: le minacce di ulteriori riduzioni della spesa sociale sono attendibili, ma è attendibile anche che le forze della Sinistra difficilmente potranno accettarle. In un clima del genere, la presa di posizione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Enrico Letta sui possibili allargamenti della maggioranza sono comprensibili, anche se lasciano prevedere scenari non del tutto condivisibili. Letta si è detto convinto che "bisogna allargare questa maggioranza, e lo dico senza timore: non possiamo pensare di durare cinque anni in Senato con i voti dei senatori a vita. Serve quindi una forte azione di convincimento verso i settori moderati" per indurli a comprendere che "il vero riformismo liberale sta da questa parte", vale a dire tra le fila dell'Unione, "non nel Centrodestra che nel precedente quinquennio non ha saputo rispondere adeguatamente alle attese dei suoi elettori che chiedevano riforme in senso liberale del sistema economico del nostro Paese".

Per bisogno di chiarezza, bisogna innanzitutto distinguere tra l'eventuale allargamento della maggioranza cui Enrico Letta allude nella sua proposta e un ben più sostanziale cambio di maggioranza che si determinerebbe qualora si venissero a creare le condizioni per governi di larghe intese sul modello tedesco. Letta ha subito precisato di volere escludere la possibilità di tradire il responso delle urne alleandosi con parte dell'opposizione e creando di fatto le condizioni per l'esclusione della Sinistra dal governo del Paese. Più probabile sembra essere il coinvolgimento di parlamentari dell'opposizione che già molti osservatori danno in transito verso il Centrosinistra. Non è un mistero che esponenti dell'UDC di Cesa, Follini e Casini, del Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo, e perfino di Forza Italia sono da tempo in rotta di collisione con Berlusconi e con quel che resta della Casa delle Libertà. Passaggi da un campo all'altro non sono da escludere e al momento rappresentano di sicuro un'ipotesi più plausibile delle larghe intese che, come sempre, rappresentano più o meno celate ambizioni neo-centriste. Se poi sia possibile portare a termine riforme liberali in campo economico e sociale con personaggi che fino all'altro ieri difendevano il Cavaliere e (quasi) tutti i provvedimenti realizzati dal suo governo è una cosa difficile da credere e sulla quale ci permettiamo di mantenere forti riserve.

A tenere aperte le porte all'ipotesi delle larghe intese contribuisce l'ex-Ministro Giulio Tremonti. L'ideatore della cosiddetta finanza creativa si è detto convinto di un'imminente crisi del governo guidato da Romano Prodi. Tremonti ha dichiarato: "È relativamente poco probabile che il governo Prodi duri 5 anni. Ma non credo che cadrà su Kabul oppure sui Pacs". È ben più probabile, a suo avviso, che l'esecutivo si spaccherà sulla finanziaria, quando si richiederanno sacrifici ai cittadini e le promesse elettorali verranno inevitabilmente tradite. A questo punto, prosegue Tremonti, "l'alternativa è binaria: o si va a votare, oppure non si vota, e allora si aprono scenari nuovi" (la Repubblica, 18 luglio 2006). Questi scenari nuovi sarebbero rappresentati da un governo di larghe intese che, almeno come misura temporanea, consentirebbero l'unico modo di realizzare quelle riforme nell'interesse generale che l'Unione non sarebbe in grado di portare a termine. Tremonti è chiaro nel voler distinguere un governo retto da una grande coalizione dall'ipotesi (al momento non praticabile) del Grande centro, ma è altrettanto chiaro nel prevedere anche che il primo risultato di un'eventuale grande coalizione sarà una "separazione della sinistra di governo dalla sinistra radicale", con l'inevitabile isolamento politico di quest'ultima.

Un esito del genere sarebbe ritenuto una sciagura dagli esponenti di Rifondazione Comunista, dei Verdi e del PdCI, che non ci stanno a farsi mettere all'angolo, in una posizione in cui il loro ruolo politico si ridurrebbe a quello di mera testimonianza. Da più parti si ribadisce che la maggioranza è autosufficiente e che non c'è bisogno di cercare voti tra i parlamentari dell'opposizione perché questo non sarebbe una concessione gratuita, ma avrebbe un costo politico non indifferente che potrebbe snaturare la natura della coalizione uscita (seppure di misura) vincente dalle urne. Eppure, è chiaro che Prodi e gli uomini più vicini al Premier temono che si ripeta quanto accadde nel 1998, quando Rifondazione determinò la caduta del primo governo Prodi. È proprio alla luce di queste preoccupazioni che va vista la dichiarazione di Letta sull'allargamento di maggioranza. Tuttavia, come abbiamo già detto, un'eventualità del genere non sarebbe priva di costi, e l'indebolimento della specificità programmatica dell'Unione sarebbe tale da rendere preferibile l'ipotesi di un rapido ritorno alle urne.

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