di Fabrizio Casari

Si è appena affievolita l’eco delle parole del Presidente Napolitano, che già ci si domanda se il PD accetterà o meno di partecipare all'ammucchiata che propone il Capo dello Stato (ma ci sono pochi dubbi al riguardo). E, nel caso, chi e quanti saranno i possibili franco tiratori nel voto sulla formazione del governo. Ma soprattutto, è evidente come l'eventuale partecipazione ad un governo di larghe intese produrrà inevitabilmente una rottura interna non ricomponibile. Quello che è certo è che il PD esce a pezzi dalla partita per l'elezione del Quirinale e gli applausi che ieri hanno interrotto tranta volte il discorso del Capo dello Stato di fronte alle Camere non hanno certo ricomposto granché, tutt'altro. Più in generale, circa la sorte del partito sono molte le domande senza risposta, vista l’opera di autodisintegrazione che il gruppo dirigente del PD ha messo in atto.

Al netto di ogni possibile interpretazione di quanto emerso in questi giorni, sembra essere arrivata al capolinea una corsa che, nel corso degli anni, si è costantemente caratterizzata come una corsa a non vincere. Infatti, volendo ripercorrere le vicende recenti della storia del PD, si può comodamente verificare come, ad ogni passaggio di fase politica che potesse aprire scenari di un governo a guida progressista, o almeno di centrosinistra, il PD si sia regolarmente sottratto. I due esempi più clamorosi di questa tendenza suicida si possono rintracciare negli ultimi diciotto mesi.

Il primo risale alla fine del 2012, quando con Berlusconi dimessosi da premier a furor di popolo e i sondaggi che davano il PD oltre il 45% dei voti, il gruppo dirigente di Via del Nazareno preferì scegliere la via indicata da Napolitano: governo Monti di unità nazionale e golden share in mano al PDL, visto che aveva comunque la maggioranza dei parlamentari a disposizione.

La storia del governo Monti sappiamo come è andata: il peggior governo della storia repubblicana per gli effetti concreti sullo smantellamento dell’identità socio-economica del Paese. Un governo nominato dalle grandi banche e ciecamente obbediente alla linea del rigore economico della Ue che puntava al drastico ridimensionamento economico dell’Italia in funzione di un rinnovato, ulteriore dominio tedesco sull’Europa.

Criticato dalla sua base elettorale, il PD rispose che il governo Monti era stato il frutto di una emergenza economica non aggirabile e, non potendo rispondere alle obiezioni sul perché questa emergenza non poteva affrontarla il governo a guida PD, magari legittimato dal voto popolare, rispondeva a mezza bocca che una campagna elettorale aveva dei tempi incompatibili con l’urgenza della crisi. Peccato che proprio la Spagna dimostrava invece che così non era.

Preso atto del disastro sociale ed economico prodotto dalla banda di dilettanti accademici allo sbaraglio e convintisi di aver pagato a caro prezzo l’appoggio al governo dei banchieri, oltre che il pessimo abbraccio con il PDL, i dirigenti del PD, almeno pubblicamente, si dicevano convinti che l’appuntamento elettorale sarebbe stato il momento giusto per proporre, con il governo a guida centrosinistra, l’uscita progressiva dalla crisi con misure sociali ed economiche che mettessero in discussione l’impianto turbo-liberista che la crisi aveva determinato e le cui ricette per superarla ne avevano sancito il carattere permanente.

Gli elettori, però, non si sono sentiti affatto rassicurati dalla campagna elettorale al cloroformio di Bersani, il quale poi, con una vittoria solo parziale, ha passato 45 giorni ad inseguire il via libera da parte di Grillo senza però offrire nulla di quanto il M5S chiedeva.

Ma ecco che con il voto per la Presidenza della Repubblica si apre un nuovo scenario: Grillo offre un progetto di cambiamento una volta tanto unitario, proponendo al PD di convergere sul nome di Rodotà per il Colle e, subito dopo, il via libera per la formazione del governo, come il PD chiedeva da 45 giorni. Si poteva quindi attendere un consenso da parte del PD, che in un colpo solo avrebbe potuto portare un uomo di sinistra dal valore ampiamente riconosciuto al Quirinale e un uomo del centro-sinistra a Palazzo Chigi, Bersani o Prodi che fosse. Niente da fare.

Proprio il governo di coabitazione con Berlusconi e Monti, che  si dicevano convinti esser stato la causa della mancata vittoria elettorale, è tornato ad essere l’orizzonte possibile. Il prezzo pagato è stato la dissoluzione del PD attraverso l’esposizione in pubblico della guerra sotterranea delle correnti. Come già nella DC, peraltro, correnti costituite sulle ambizioni private di personaggi che reclutano intorno a se stessi gruppi di pressione ai quali viene offerta una prospettiva, non sono correnti che rappresentano linee politiche diverse, sbocchi politici e organizzativi antagonisti o anche solo distanti fra loro. Ad impallinare i proposti - Marini come Prodi - è stata l’inedita alleanza tra D’Alema (il vero uomo nero del partito) e Renzi, che hanno deciso di schiantare Bersani insieme ai due candidati.

Il loro incontro fiorentino alla vigilia del voto su Prodi ha avuto proprio questo scopo. Per D’Alema era l’occasione per vendicarsi di Bersani, colpevole di aver rispedito al mittente le offerte di alleanza con Casini e l’addio a Vendola auspicate da D’Alema, per il quale poi il segretario non aveva chiesto a gran voce la deroga per la candidatura. Per Renzi la possibilità di assurgere alla candidatura alla premiership per elezioni rapide con una segretaria del partito schiantata che magari facesse persino bypassare le prossime primarie, che non si sa mai.

Insieme alle ambizioni e alle rivalse personali dei due personaggi, va però aggiunta una considerazione di ordine politico che è alla base dell’inedita alleanza: entrambi sono convinti, da due diversi punti di vista, che il PD vada superato. Ed entrambi ritengono che vada superata l’idea stessa dell’esistenza di un partito che si richiama alla sinistra e che possa, per influenza e dimensione, aspirare a governare il paese. Entrambi ritengono infine che, superata l’era di Berlusconi dalla destra italiana, non ci sono ragioni valide per proporre uno scontro politico elettorale bipolare in un paese diviso in tre o quattro aree nella sua rappresentazione elettorale.

A questa strategia dei sabotatori a fini privati e politici Bersani non ha avuto la capacità di rispondere. Non solo perché non ne è strutturalmente capace, ma anche perché é rimasto prigioniero del progressivo tradimento dei suoi alleati interni. Quanto visto in queste ore non era immaginabile. Nemmeno un giovane studente appena affacciatosi alla politica avrebbe commesso tanti e tanti errori e uno più grave dell’altro. E come spiegare tanta incompetenza da persone oggettivamente competenti?

Si può pensare che sia per paura di governare, per consapevolezza di non avere uomini e programmi all’altezza, ma non convince. Si può dunque ipotizzare come la sindrome dell’unità nazionale, l’idea della grande coalizione, il convincimento che la sinistra non può governare l’Italia sia l’humus culturale e politico del PD. In alternativa, o forse in aggiunta, non resta altro che pensare ad un partito ricattato, che sa di non poter ambire al governo del Paese proprio in considerazione dell’opposizione dei poteri forti e, contemporaneamente, della sua ormai conclamata dipendenza da essi.

La dissoluzione del PD è dunque l’unico atto concretamente politico che il gruppo dirigente di Via del Nazareno si trova davanti, atteso che non sembra avere energie per una sua rifondazione. Il congresso, da convocare rapidamente, dovrebbe separare una volta per tutte la sinistra da chi si oppone alla sinistra. Come ha efficacemente riassunto Pippo Civati, l’anomalia del PD è che, pur essendo un partito si sinistra, è pieno di gente che odia la sinistra.

Difficile, se non impossiile, che il PD rimarrà ciò che è stato fino ad ora. La rivolta della base e il tradimento dei vertici, il venir fuori delle correnti in modo così volgare ha segnato in profondità la sorte del partito e le grandi manovre per i processi di aggregazione centrista sono appena cominciati. Si é in qualche modo chiusa una storia priva d'identità ideale e strategia politica, una sommatoria numerica che non è mai diventata un progetto poitico, atteso che due percorsi sconfitti non ne fanno uno vincitore.

 

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