di Fabrizio Casari

Un sedici a zero è punteggio per il quale, normalmente, non servirebbero commenti. La forza dei numeri, come quella dei fatti, risiede nell’oggettività e mal si adatta a tentativi di piegarli verso un’interpretazione o un'altra. Ma la debacle del centrodestra e il trionfo del centrosinistra nelle amministrative necessitano comunque di alcune osservazioni a margine, se non altro per capire cause e riflessi si un voto che sembra così distinto e distante da quello delle politiche di tre mesi addietro.

Particolarmente significativa la vittoria di Ignazio Marino a Roma, che ha doppiato il sindaco uscente Ale-danno, mettendo così fine ad una amministrazione capitolina rivelatasi la peggiore nella storia della città. Ma complessivamente la vittoria del centrosinistra ha assunto forma di valanga. Un centrosinistra che sembra ritrovare una parte del suo elettorato e, spesso, si mobilita sul piano locale, cioè nelle occasioni di relazioni di prossimità maggiore tra elettore ed eletto.

Molti dei candidati del PD - Marino soprattutto - sono poi decisamente più progressisti e laici del profilo medio dei dirigenti nazionali del proprio partito e propongono accordi politici a sinistra invece che l’inciucio con il PDL. Se il PD però ritenesse che la vittoria dei suoi candidati segni l’inversione di tendenza e in qualche modo attenui dibattito e scontro congressuale, commetterebbe un marchiano errore di valutazione.

La destra, invece, si dimostra un contenitore vuoto. Oltre alla scarsa presentabilità di alcuni candidati, trova nell’assenza del suo leader dalla competizione l’assenza tout-court di affascinamento politico. Berlusconi, infatti, è l’unico a poter ingaggiare una competizione elettorale con capacità di proporre magari il nulla ma comunicandolo benissimo; le sue campagne, infatti, pur se sostenute da bocche di fuoco impressionanti della propaganda, si giovano comunque della sua capacità indiscussa sul terreno della comunicazione-marketing. Senza Berlusconi che la guida, la destra italiana è una marmaglia di capi bastone e picciotti senza spessore, che si mordono vicendevolmente per accaparrarsi la maggior quota possibile di bottino, ma risultano privi di qualunque capacità di seduzione. Evocano mazzette più che sogni.

Del resto, in vista del “rompete le righe”, gli ex-AN si sono costruiti il partitino domestico, il PDL è ormai tavolo sotto il quale si consumano le diverse rese dei conti e la Lega, pure impegnata nella guerra interna tra Bossi e Maroni, paga il malgoverno di questo ventennio nelle città del Nord. Il venir meno fisiologico prima che politico, della ledership di Berlusconi, se oggi lo si misura con la debacle elettorale a livello amministrativo, più avanti lo si verificherà nell’impossibilità di mantenersi come progetto unitario. L’uscita di scena di Berlusconi, infatti, porterà ai mille rivoli della destra, conseguenza inevitabile della miscela ideologica contenuta e controllata solo dalla difesa degli interessi del capo che, vincendo, garantiva tutti.

C’è poi da registrare il risultato non certo brillante del Movimento Cinque Stelle. Vittima del suo isolamento e della teoria sull’equidistanza nelle responsabilità del malgoverno tra destra e sinistra, in ogni elezione a doppio turno i voti che ottiene al primo non risultano spendibili per il secondo.

Perché il rifiuto di realizzare accordi di governo anche a livello locale con il centrosinistra (pure in certe aree molto meno lontano da ciò che le urla isteriche di Grillo provano a nascondere) privano il M5S di spazio di agibilità politica, ne minano nel profondo il valore d’uso.

E’ una dote, quella elettorale del M5S, non capitalizzabile perché non spendibile; un voto a perdere dove i grillini non hanno possibilità di vittoria diretta, cioè nella maggior parte dei casi. Di conseguenza, il primo partito italiano per numero di voti diventa anche il più inutile in un panorama politico frammentato dove l’impraticabilità della relazione con gli altri partiti non rende possibile nessuna alleanza.

C’è da dire che è ben comprensibile la volontà di non costruire relazioni ed alleanze: passare da una maggioranza relativa teorica e numerica, ad una maggioranza assoluta politica e programmatica, comporta la sfida del governo. E governare significa sporcarsi le mani, passare dalle urla ai ragionamenti, dall’ipotetico al praticabile, dalla suggestione alla viabilità delle idee; tutto cambia. Un vaffanculo non è un programma e a volte, oltre che un grido liberatorio, si trasforma in un boomerang.

Il centrosinistra rialza la testa grazie al combinato disposto di due fattori: la maggiore e migliore presentabilità dei candidati pressocchè ovunque e un’astensione altissima, che notoriamente investe il ventre molle dell’elettorato, quello cosiddetto d’opinione, che spesso è meno ingaggiato politicamente in forma diretta. Le ragioni dell’ormai massiccio disertare delle urne sono diverse e il fenomeno, che non si affacia per la prima volta ma che risulta ricorrente negli ultimi anni, ha spiegazioni contingenti e politiche.

Intanto va detto che strutturalmente, le elezioni con doppio turno, quale che sia la posta in palio, vedono sempre alla seconda tornata un numero fisiologicamente minore di elettori che tornano a votare: quello di recarsi al seggio, in fondo, non è tra i divertimenti più ambiti. A questo si aggiunge però un altro elemento che è politico: nel secondo turno, una quota significativa di elettori deve votare per il candidato che appare meno lontano, non per il più vicino. Per gli elettori i cui partiti non sono arrivati al secondo turno, la preferenza in sede di ballottaggio più che un voto convinto risulta un voto al “meno peggio” e non a quello che si vorrebbe votare.

Ma l’aspetto più generale che riguarda la disaffezione crescente dal voto è certamente rappresentato dall’incrinatura ormai conclamata nella relazione tra rappresentanti e rappresentati, su cui si sostanzia il principio della delega in democrazia. I partiti non sono più né l’intellettuale collettivo di gramsciana memoria, né la comunità di uomini e donne animate da un progetto di società condiviso; sono sempre di più lontani non solo da idealità ma persino dal senso comune, risultano sempre più incapaci di connettersi sentimentalmente con lo stesso proprio elettorato e vengono percepiti come circoli chiusi riservati a cricche interne, impermeabili alle istanze della popolazione.

La strada per riaprire il dialogo tra elettori e partiti nel centrosinistra potrebbe essere tracciata anche dalla crisi di progetto a medio termine della destra italiana. Scoprire la sinistra diffusa, quella che indice referendum sui beni comuni, si batte nelle realtà locali contro lo scempio del territorio, i progetti faraonici, l’aumento delle spese militari e il recupero del lavoro quale asse centrale del patto sociale, sempre meno riesce ad entrare nelle sedi del PD e poco entra anche in quelle di SEL.

Sarebbe bene che si aprissero meglio tutti per far entrare aria nuova, che sfuggissero alla logica dei fedelissimi. La contaminazione con l’esterno è la sola via di rinascita, un percorso obbligato per trasformare una vittoria contingente in una di prospettiva. Quelle con il popolo della sinistra sarebbero le larghe intese da perseguire.

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