Il risultato elettorale disegna un’Italia inedita. Si chiude l’epoca del bipolarismo su base maggioritaria concepito negli ultimi venti anni e viene archiviato il modello dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra. La destra fascio-leghista arriva vicino al 25% (complessivamente) mentre scompare la sinistra, che non arriva al 5%.

 

La più importante novità è l’affermazione straordinaria del Movimento 5 Stelle, che ha superato ogni previsione dei sondaggi. Sul piano numerico il M5S è il primo partito del paese perché riesce a imporsi in tutto il Sud, addirittura con risultati schiaccianti in Sicilia e Calabria, dove distrugge l’antico sistema di potere feudale gestito dai partiti. I grillini catalizzano tutto lo scontento del paese per la macelleria sociale delle politiche rigoriste e ai disastri di quelle ipocrite e  improvvisate sull’immigrazione che producono ulteriore disagio.

 

 

Ma il successo del M5S è anche il riflesso di una critica generale al sistema ed è conseguenza del superamento delle grandi opzioni ideologiche imperante da quasi un trentennio. Qui M5S s’impone come nuovo aggregatore dello scontento dei ceti popolari e della classe media, spaesati e privi dei riferimenti politici tradizionali. Ed è grazie a loro se oggi la destra vince ma non sfonda.

 

Dalle urne emergono con forza la fine del renzismo, che porta con se anche la fine del PD, e di Berlusconi, che porta con sé quella di Forza Italia. L’affermazione della Lega chiude invece la fase storica del centrodestra a trazione moderata ed inaugura quella della destra radicale di massa. Ovviamente, non aver raggiunto il 40% non assegna ai fascio-leghisti la possibilità di formare il governo in assenza di ulteriori disponibilità, ma saranno le definitive assegnazioni dei seggi alla Camera e al Senato ad indicare se la campagna acquisti (specialità della casa e già iniziata) avrà successo e, ammesso che lo abbia, su quale tenuta possa far conto.

 

In coda ai grandi sommovimenti si registra il pesante flop di Liberi e Uguali, che non arriva nemmeno al 4 per cento dei voti. Quello che doveva essere un progetto di ricostruzione di una nuova sinistra è apparso più una aggregazione di antirenziani che un progetto politico con una identità socialista e laburista. Accuratamente evitate le necessarie radicalità e discontinuità che avrebbero dovuto caratterizzare programmi e candidati, Liberi e Uguali è apparsa ossessionata dalle dinamiche interne al PD, dando l’impressione che dal PD fosse uscita con le gambe ma non con la testa.

 

Non c’è stata l’indispensabile presa di distanza verso l’intera storia del PD, che ha rappresentato la fine di ogni progetto di costruzione della sinistra in Italia e il contestuale abbandono delle istanze popolari, sacrificate sull’altare dell’innamoramento senile per il turbo liberismo che, dal 2011, ha prodotto la più grave lacerazione del tessuto economico e sociale italiano.

 

Non associare alla nascita di un nuovo soggetto politico il ripensamento totale del cammino, come se fosse stata solo la deriva renziana ad aver determinato il suo fallimento  - e non invece conseguenza di un errore strategico di partenza - ha offerto la misura, il limite intrinseco della scommessa di LeU, che anche nell’esibizione di un gruppo dirigente usurato e perdente non ha offerto segnali di discontinuità e rottura. E anche la strategia elettorale ha fallito: non ha avuto il voto dell’elettorato PD, andato ai 5 Stelle e non è risultato attraente verso chi, collocato davvero a sinistra, ne intuiva come minimo l’inadeguatezza.

 

In attesa delle manovre che sono già iniziate, i numeri per la costruzione del governo non indicano soluzioni naturali dal punto di vista politico. La sola che avrebbe avuto uno sbocco (da tutti previsto) era quella dell’alleanza tra PD e Forza Italia, ma la somma dei due partiti non permette nemmeno lontanamente di considerarla un’ipotesi percorribile.

 

Ci sono dunque due soluzioni che possono essere intraviste. La prima è quella di una alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega, che non appare però priva di rischi per Di Maio. Se per la Lega, infatti, conscia di aver raggiunto percentuali non superabili, l’alleanza non comporterebbe problemi, al contrario per i penta stellati creerebbe diverse difficoltà. In primo luogo perché l’idea stessa di alleanza con un'altra forza politica mina in radice l’humus identitario dei 5 Stelle, poi perché hanno ricevuto in buona parte i consensi appartenenti un tempo alla sinistra che comunque non digerirebbero un’alleanza ora con la destra sovranista e xenofoba.

 

C’è poi un’altra ipotesi che vorrebbe un’alleanza tra il M5S, il PD senza più Renzi alla guida e Liberi e Uguali, ma è di difficilissima realizzazione sotto il profilo politico, vista l’indisponibilità del PD prima ancora di verificare quella dei 5 stelle.

 

A rimarcarla ci sono le parole di Renzi, che si è presentato davanti alla stampa con le consuete finte dimissioni. Perché sono dimissioni ben strane visto che ha indicato la linea politica, guiderà la delegazione al Quirinale e stabilirà nomi, tempi e modi della sua successione. Chissà se non si dimetteva che avrebbe fatto.

 

Nessuna autocritica, nemmeno avverte il disprezzo popolare che lo circonda e preferisce assegnare al suo partito e a Mattarella la sconfitta elettorale più grave della storia del centrosinistra. Insomma, il solito pupazzo. A poco servono le critiche arrivate da Cuperlo, Orlando o Zanda, sia perché soggetti privi di ogni sostanza, sia perché il gruppo parlamentare del PD è una falange renziana, praticamente il soggetto fondatore del prossimo partito personale del ducetto di Rignano.

 

Il puzzle della formazione della maggioranza parlamentare (che non potrà comunque essere omogenea) appare davvero difficile. La soluzione potrebbe essere il ritorno al voto con una nuova legge elettorale, ma la possibilità di un governo di scopo che affronti l’ordinaria amministrazione mentre il Parlamento la vota è anch’esso terreno accidentato. La stessa ipotesi di Gentiloni premier è rimasta sotto le macerie del PD e anche fosse adottata con imperio da Mattarella (ce lo vedete?), difficilmente troverebbe il sostegno parlamentare tripartisan.

 

L’Unione Europea che aveva puntato sul prevalere di Berlusconi nell’ambito della destra, per ora tace ma è evidente la sua preoccupazione per l’affermarsi di un quadro parlamentare decisamente meno disponibile verso Bruxelles. E se l’Est Europa che vede crescere l’aggregazione politica anti UE può essere considerato un prezzo accettabile, molto più difficile sarebbe il profilarsi di uno scontro tra le istituzioni europee e uno dei paesi fondatori, che per PIL, storia, ruolo geopolitico e posizionamento nello scacchiere Nato ha un’incidenza decisamente maggiore di quella dei paesi dell’Est nella sopravvivenza dell’Unione a trazione franco-tedesca.

 

Proprio mentre la Germania vede nascere la Grosse Koalition e la Cancelliera Merkel rinnova con Macron l’asse Berlino-Parigi, Roma in mano agli anti-UE complica il quadro generale e apre interrogativi importanti per la stessa Germania sul mantenimento in prospettiva dell’Euro. Che a questo punto appare più strumento monetario utile nello scontro commerciale con Washington che modello socioeconomico condiviso dall’Atlantico agli Urali.

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