Nel lungo viaggio dal contratto di governo alla legge di Bilancio, i progetti del governo giallo-verde cambiano forma. A sommare tutte le promesse fatte in campagna elettorale il costo della prossima manovra doveva essere di 100 miliardi. Una cifra fuori dal mondo, che fra tagli e rinvii si sta riducendo di circa due terzi. I primi abbozzi della nuova finanziaria parlano infatti di un conto finale da 30-35 miliardi, molto meno di quanto annunciato prima del 4 marzo, ma comunque tanto. Forse troppo.

 

Il problema è conciliare esigenze politiche e contabili. In vista delle elezioni europee di maggio, M5S e Lega devono dare segnali concreti su quelle che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha definito “misure qualificanti” del programma: reddito di cittadinanza, flat tax e revisione della Fornero. Ma ognuno di questi interventi, per essere realizzabile, dovrà diventare molto più leggero del previsto.

 

Partiamo dal reddito di cittadinanza. La settimana scorsa il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha concesso al Movimento 5 Stelle di concentrare su questo capitolo di spesa una decina di miliardi. Più di quanto Luigi Di Maio avesse mai ottenuto finora, ma comunque molto meno dei 17 miliardi che servirebbero secondo i calcoli dei grillini per realizzare subito la misura coma da programma.

 

L’anno prossimo si dovrebbe cominciare con la “pensione di cittadinanza”, cioè l’innalzamento dell’assegno minimo da 500 a 780 euro (la cifra del reddito di cittadinanza). Costerebbe intorno ai due miliardi e dovrebbe essere operativa dal primo gennaio. Alla riforma dei centri per l’impiego andrebbero altri due miliardi, di cui uno potrebbe essere recuperato dai fondi comunitari. Una volta completato questo passaggio, fra maggio e giugno, dovrebbe partire il reddito di cittadinanza vero e proprio. Per coprire solo il secondo semestre del 2019 basterebbero sei miliardi, di cui tre sono già a bilancio (si tratta delle risorse stanziate dal governo Gentiloni per il Reddito d’inclusione). Dal 2020 il costo raddoppierebbe, ma questo è un problema che ci si porrà più avanti.

 

Quanto alla flat tax, la sua introduzione avverrà a tappe lungo tutta la legislatura e il risultato sarà molto diverso dall’aliquota unica al 15% sbandierata dai leghisti in campagna elettorale. L’anno prossimo si comincerà sicuramente da un’estensione del regime dei minimi per le partite Iva: la tassazione agevolata al 15% sarà concessa a chi fattura fino a 100mila euro, mentre adesso il tetto varia da 25mila a 50mila euro a seconda dell’attività.

 

L’aspetto più importante è però quello che riguarda le aliquote Irpef. Nel 2019 potrebbero essere ridotte da cinque a tre (21% per i redditi da 15 a 28mila euro, 38% da 28 a 75mila e 43% per chi supera quota 75mila), con l’obiettivo di scende a due entro la fine della legislatura (probabilmente una al 21 e una al 33%). Il costo totale dell’operazione si aggira intorno ai 15 miliardi, ma nella prossima legge di Bilancio basterà stanziarne 6-7. Il famoso topolino partorito dalla montagna, se si pensa che per l’aliquota unica al 15% di miliardi ne servirebbero 50.

 

Infine, la controriforma delle pensioni. Smontare completamente la legge Fornero costerebbe 14 miliardi, perciò anche in questo caso addio sogni di gloria. Da settimane l’unica novità di cui si parla è l’introduzione della “quota 100”, cioè la possibilità di andare in pensione quando la somma fra età anagrafica e anni di contributi arriva almeno a 100. Detta così, la misura imporrebbe di trovare circa 8 miliardi, ma si sta pensando di fissare l’età minima per lasciare il lavoro a 64 anni: in questo modo la platea beneficiaria della quota 100 si ridurrebbe, abbassando il costo dell’intervento di un paio di miliardi.

 

A tutte queste spese bisogna poi sommare i 12,4 miliardi necessari a evitare che dal primo gennaio scatti l’aumento dell’Iva (l’aliquota ridotta salirebbe dal 10 all’11,5% e quella ordinaria dal 22 al 24,2%) e altri tre miliardi e mezzo per le cosiddette “spese indifferibili”, tra cui le missioni all’estero.

 

Alla fine, perciò, anche la versione light della manovra rischia di essere troppo pesante per le casse dello Stato. La soluzione del rebus dipenderà in buona parte dalle capacità di mediazione di Tria, che ha il doppio compito di trovare le coperture e negoziare con Bruxelles, il tutto senza far innervosire troppo Di Maio e Salvini. Il numero uno del Tesoro vorrebbe anche mantenere il rapporto-deficit Pil entro l’1,6%, assai lontano dal limite del 3% tante volte evocato nelle scorse settimane. Intanto, agenzie di rating e fondi speculativi stanno a guardare. Con il dito sul grilletto.

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