Due sono i dati politici rilevanti del voto abruzzese: la supremazia elettorale della destra, quando unisce tutte le sue componenti, e la disfatta dei 5 stelle. Se per la prima non si può parlare si sorpresa, per il secondo si tratta di ben altro che di un risultato circostanziale di una elezione locale; pare piuttosto esprimere nel migliore dei casi tutte le difficoltà dei grillini (sono ancora quelli?) e, nel peggiore, la fine prematura di un progetto rinnegato dai suoi stessi capi, passati da critici spietati ad ancelle del sistema.

 

Per quanto si possa argomentare o eccepire sulla probità del test, sulla sua valenza numerica generale, il risultato elettorale delle regionali abruzzesi conferma quanto gli istituti di rilevazione dei flussi elettorali vanno sostenendo da tempo: l’avanzata della destra che quando ritrova la sua unità è vincente; la fine annunciata del PD; la delusione totale dell’elettorato 5 stelle.

 

Il risultato fotografa il limite strutturale del movimento. La sua ascesa, concretizzatasi alle ultime politiche, ha imboccato la discesa sin dalla nascita del governo con Salvini. Nella dimostrata frenesia di accomodarsi sulle poltrone governative, il M5S non si pose il problema della composizione del suo voto; eppure, anche solo leggendo i dati degli osservatori elettorali, avrebbe potuto comprendere come almeno un 30% del suo elettorato proveniva dalla sinistra in senso lato.

 

Bastava una semplice operazione matematica: se la destra complessivamente girava intorno alla sua media storica del 35-40% e il PD raccoglieva circa il 20, dopo aver però sfiorato il 40%, il flusso in uscita riguardava il campo della sinistra e del centrosinistra. Il quale, per via della pregiudiziale antifascista, non poteva accettare il governo con la Lega.

 

Erano elettori, cioè, che avevano abbandonato il campo del centrosinistra a causa del suo procedere spedito e con poca decenza nel campo del liberalismo e non importa a quale tradizione si richiami perché è ormai destra liberale sotto tutti i punti di vista: dalle ricette economiche e sociali al modello di architettura istituzionale, dalla concezione liberista del welfare alla politica estera.

 

Una parte di quell’elettorato deluso dal centrosinistra aveva intravisto nel M5S la possibilità di non votare per il PD e dintorni senza per questo lasciare campo libero alla destra. Ma l’alleanza con Salvini e un governo fedele alla prosecuzione delle politiche liberiste con l’aggiunta di tinte razziste e xenofobe, non poteva essere accettata. Quei voti di quella sinistra sparsa sono quindi i primi che sono venuti meno. Insieme a essi, sono mancati all’appello anche quelli di chi riteneva i 5 Stelle un’ondata critica verso il politically correct, presto divenuti bottino della cannibalizzazione da parte della Lega.

 

Lo conferma l’analisi della SWG sui flussi di voto indica che il 46,3% di chi aveva votato 5 stelle non ha votato, il 32,6% ha confermato il suo voto, il 21,1 lo ha cambiato. Tra questi ultimi il 10% ha votato Lega, il 9,7 è tornato a votare PD e l'1,1 ha votato un altra lista.

 

Sin dall’inizio, nell’accettare il patto di governo con la Lega, il M5S metteva in scena due colossali smentite di quanto sempre sostenuto: non governare con alleanze non indicate nel programma (e la Lega veniva esclusa da ogni possibile compartecipazione al governo), non dare vita ad una trattativa all’oscuro dei suoi elettori.

 

Lo stesso gruppo dirigente, diretto da Di Maio, Buonafede e Toninelli, con la regia occulta del Casaleggio figlio, ha dimostrato di non essere in grado, per cultura politica, incapacità di comprendere testo e contesto, scarso spessore personale e comprensione dell’arte di governo, di assumere la guida di un Paese, quale esso sia.

 

Non un dossier sui temi più importanti, non una nomina governativa né un intervento normativo hanno potuto evitare di generare scetticismo generale, come l’affaccio balconato nel quale si dichiarava di aver sconfitto la povertà, rappresentazione massima dell’imbecillità politica e personale.

 

Nell’allontanamento di una parte del suo elettorato sono risultati determinanti le promesse non mantenute: l’annunciata abolizione del Jobs Act mai avvenuta (anzi votarono per il suo mantenimento), l’abolizione della Fornero (mascherata da quota 100 che la peggiora), il no agli F35 (divenuto un Si), la fine delle sanzioni alla Russia (che sono state mantenute con il voto italiano favorevole in sede UE), il blocco della Tap (che è diventata anacronistica) e il no alla Tav (d’improvviso sconveniente), sono state giravolte emblema di un partito che si proponeva di aprire il sistema come una scatoletta e che è finito invece lui sottovuoto.

 

Per non parlare del mancato rigore nella gestione della cosa pubblica, ben rappresentato dall’accettare di governare con un partito che ha rubato alle casse pubbliche 49 milioni di Euro e di sostenere un Ministro degli Interni pluri indagato, quando in precedenza, per molto meno, Di Maio invocava dimissioni per i suoi predecessori.

 

Insieme a questo, l’imperizia dei suoi ministri, il cui “diverso modo di governare” ha dimostrato come l’improvvisazione, l’ignoranza crassa e la mancata conoscenza dei meccanismi istituzionali generi ilarità diffusa, proprio quando la situazione richiederebbe massima serietà e determinazione. Non s’improvvisa una classe dirigente con alcuni click.

 

E’ stato regalata a Salvini la rappresentazione del governo e lui non si è fatto pregare. La cannibalizzazione da parte della Lega, del resto, trae ragione dall’adesione spanciata della compagine pentastellata al programma elettorale leghista, che con il 17% sta operando una trasformazione in negativo del Paese che non era riuscita nemmeno a Berlusconi, che pure aveva 100 parlamentari di maggioranza.

 

Un esempio concreto? Il 15 febbraio il governo firmerà l’intesa per la “regionalizzazione differenziata”di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Poi passerà al voto del Parlamento, a maggioranza assoluta. Solo un Sì o un No, senza emendamenti.  Se passa, per 10 anni non potrà più essere modificata, neppure attraverso un referendum abrogativo. E’ in realtà una vera e sostanziale devolution, che riguarda ben 23 aree di competenza su 23, tutte quelle previste dall’articolo 117 della Costituzione. Devolution totale compreso fisco, istruzione, sanità.

 

Il M5S deve trovare, come nel caso del sacrosanto stop sul Venezuela, la forza per porre un NO senza possibilità di mediazione. Perché il progetto appena descritto è il cuore dell’identità della Lega, nata per fare gli interessi del Nord, delle regioni che vogliono fuoriuscire dal sistema di solidarietà fiscale alla base del dettato costituzionale. Cada pure il governo ma questo pasticcio non deve passare.  Se passa, si rompe l’unità dello Stato, salta il sistema universalistico di welfare che è sostenuto appunto dalla solidarietà fiscale. Le risorse resteranno per 9/10 nella regione dove vengono prodotte e verranno stabiliti “bisogni standard” parametrati sul gettito fiscale. Cioè più servizi dove ci sono più entrate fiscali. Quindi i diritti sociali non saranno più legati alla persona, ma al bilancio della regione di residenza.

 

Istruzione e salute saranno diversi a seconda della regione dove si vive. Significa che la sanità pubblica non avrà più perequazione, ci sarà una sanità di serie A e una di serie B. Dopo il voto scellerato sul pareggio di bilancio si dichiara ora la morte del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e si apre ai Fondi assicurativi privati. Per l’istruzione, ci sarà la possibilità di avere scuole regionali, con insegnanti regionali, con corsi di studio discrezionali. Altro che prima gli italiani, prima il Nord.

 

Questo sarebbe sconfiggere la povertà? Si legittimeranno le richieste dei ceti sociali più forti ad avere più tutele e diritti. I 5 Stelle regaleranno alla Lega la vera loro grande battaglia: la secessione dei ricchi. Un sovranismo di classe, la spaccatura in tre macroaree del Paese. E’ un disegno eversivo e anticostituzionale. E’ questo il modello di Paese che si vuole? Il governo del cambiamento promesso? Il tutto nel silenzio generale, mentre si spendono milioni di parole sui vaccini.

 

Un immediato ripensamento della collocazione governativa e l’immediata rimozione della sua ridicola compagine sono le prime due misure urgenti che il M5S deve adottare se vuole recuperare, con lo spirito delle origini, l’elettorato che scelse di investire su di esso e che non sembra più disposto a farlo.

 

La crisi terminale del centrosinistra e l’assenza di una proposta unitaria a sinistra offre ancora, persino a dispetto dei suoi meriti, uno sbocco possibile per un elettorato sconcertato e indeciso. Il campo della destra, in tutte le sue articolazioni, è colmo, inutile gareggiare per occuparlo. Se si vuole costruire un percorso di reincontro con l’elettorato perso e con gli astenuti è bene spostare decisamente a sinistra la linea politica.

 

Viceversa, più che le prospettive a medio-lungo termine, dietro l’angolo pentastellato si affaccia l’effetto “Uomo Qualunque” di Giannini, che nel dopoguerra arrivò a sfiorare il trionfo per poi finire nel nulla, miseramente, nello spazio di una elezione.

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