Come un sogno ricorrente dal 1994 – quando ne parlò per la prima volta Silvio Berlusconi – la Flat Tax torna a illuminare il cielo leghista. Forse perché a corto di argomenti con cui impressionare l’elettorato, giorni fa Matteo Salvini ha rilanciato il progetto fiscale più iniquo della storia repubblicana: “Noi non abbiamo smesso di lavorare” sulla Flat Tax “giorno e notte – ha detto il leader del Carroccio – In questa manovra economica siamo già riusciti ad avvantaggiare commercianti, partite Iva, imprenditori e liberi professionisti: nel 2019 vogliamo entrare anche nelle case delle famiglie e dei lavoratori dipendenti italiani”.

 

In sostanza, dopo le novità introdotte quest’anno (aliquota unica al 15% per le partite Iva fino a 65mila euro annui e al 20% fra 65mila e 100mila), la Lega dice di voler estendere la tassa piatta anche alla maggioranza dei contribuenti italiani rimasta finora esclusa dal provvedimento.

 

Quanto costa? Secondo calcoli circolati a inizio febbraio e inizialmente attribuiti al ministero dell’Economia - che poi ha smentito la paternità delle stime - in tutto la nuova Flat Tax costerebbe circa 60 miliardi. La spesa sarebbe così suddivisa: 40 miliardi per la fase uno, con l’aliquota unica al 15% per redditi fino a 50mila euro lordi l’anno; 10 miliardi per la fase due, che prevede l’innalzamento del limite di reddito da 50mila a 80 mila euro; altri 10 miliardi per la fase tre, ossia l’introduzione di una tassazione unica al 20% per i redditi superiori a 80mila euro lordi l’anno.

 

Ora, 60 miliardi sono una cifra abnorme: l’equivalente di due manovre finanziarie corpose, o, se si preferisce, 10 volte il reddito di cittadinanza. Fantascienza contabile.

 

La Lega sostiene però che il conto finale si potrebbe mantenere entro il limite dei 12-13 miliardi. Per ridimensionare i costi in modo così drastico, Armando Siri, il demiurgo leghista della Flat Tax, progetta di applicare la tassa piatta al totale dei redditi familiari e non più a quelli individuali. In questo modo la platea dei beneficiari si ridurrebbe di parecchio, trasformando la Flat Tax in qualcosa di molto diverso dalla misura di cui si parla nel contratto di governo.

 

Tuttavia, anche 12 miliardi sarebbero una cifra proibitiva per il bilancio dello Stato. Siri lo sa benissimo, per questo sta valutando di finanziare la misura con la cancellazione almeno parziale degli 80 euro renziani, che costano circa 10 miliardi l’anno. Questa soluzione rischia però di rivelarsi un boomerang politico, perché abbasserebbe la convenienza della tassa piatta e sarebbe percepita come una nuova imposizione fiscale.

 

Insomma, la matassa è ancora piuttosto ingarbugliata. Non a caso il ministro Tria, nell’ultimo question time al Senato, ha elegantemente glissato sulla vicenda Flat Tax, rimandando il dibattito alla prossima legge di Bilancio.

 

Peccato che in autunno ci sarà ben altro di cui discutere sul piano fiscale. Governo e maggioranza fingono di non ricordare che con l’ultima manovra hanno aumentato a dismisura gli importi delle clausole di salvaguardia sull’Iva: la somma è passata da 13,7 a 23,1 miliardi sul 2020 e da 15,6 a 28,7 miliardi sul 2021, per un conto di 51,8 miliardi in due anni. Se non troveremo questi soldi – com’è probabile – l’aliquota ridotta dell’Iva passerà dal 10 al 13% nel 2020, mentre quella ordinaria, oggi al 22%, salirà al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021. A uscirne peggio saranno ancora una volta i meno abbienti, visto che l’Iva è per definizione un’imposta non progressiva.

 

Uno scenario a dir poco grigio, che rischia di rivelarsi decisivo addirittura per la tenuta della maggioranza. Siccome gli aumenti automatici dell’imposta sui consumi saranno quasi impossibili da scongiurare, è verosimile che Salvini deciderà di portare il Paese alle urne prima di mettere mano alla nuova legge di Bilancio. Quando c’è da sferrare un colpo al Paese, il momento migliore non è certo subito prima delle elezioni. È subito dopo.   

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