Giuseppe Conte è sempre stato più vicino ai 5 Stelle che alla Lega: lo sanno tutti, fin dalla nascita del governo. Nessuno però immaginava che in meno di un anno il Professore campano sarebbe diventato il poliziotto cattivo di Luigi Di Maio contro Matteo Salvini. Negli ultimi giorni il Presidente del Consiglio ha scaricato il Carroccio su tre fronti decisivi: il destino di Armando Siri, sottosegretario leghista ai Trasporti indagato per corruzione, la flat tax e le autonomie regionali.

 

In questo modo, il capo del Governo ha alleggerito la pressione sui pentastellati, che in vista delle elezioni del 26 maggio possono abbassare i toni e fingere una tregua, lasciando in mano alla Lega il cerino di un’eventuale (e probabile) crisi post-europee.

 

Lo scontro più agguerrito si è consumato sul caso Siri. La settimana scorsa Conte ha annunciato che questo martedì, in Consiglio dei ministri, proporrà la revoca dell’incarico al sottosegretario leghista, a cui per settimane i 5 Stelle hanno chiesto invano un passo indietro. Si tratta di una soluzione politica “assolutamente sganciata dal caso giudiziario: non mi voglio ergere a giudice”, ha precisato Conte, anche per tutelare la propria immagine di avvocato garantista.

 

A nulla è servita la dichiarazione arrivata poco prima dallo stesso Siri, che si era nuovamente proclamato innocente, mettendosi a disposizione dei magistrati e garantendo le proprie dimissioni entro 15 giorni se la Procura non lo avesse ascoltato. A bocciare l’ipotesi di rinvio è stato ancora una volta il Presidente del Consiglio: “Le dimissioni o si danno o non si danno”.

 

Per evitare una crisi di governo immediata, Salvini ha reagito con sorprendente moderazione: “I magistrati sono pronti a incontrare Siri – ha detto il leader leghista – e lui dimostrerà la totale estraneità ad una vicenda surreale dove due tizi parlavano di lui senza che sia stato fatto nulla. In un Paese civile funziona così. Lascio a Conte e a Siri le loro scelte. A me va bene qualunque cosa, se me la spiegano”.

 

In privato, però, Salvini si è infuriato con Conte, perché la Lega aveva sempre escluso le dimissioni di Siri e non si aspettava che il Premier intervenisse in prima persona per risolvere lo scontro a favore dei 5 Stelle. Non avendo alcuna conoscenza delle istituzioni che rappresenta, forse il capo del Carroccio non sapeva che il Presidente del Consiglio nomina i sottosegretari, è responsabile delle loro azioni e ha anche il potere di rimuoverli. Gli basta accordarsi con il ministro competente (in questo caso il grillino Toninelli) e “sentire” il Consiglio dei ministri prima di portare il decreto di revoca al presidente della Repubblica per la firma. Il voto del Cdm è possibile, ma non è previsto, né in alcun modo vincolante per il capo del Governo.

 

Risultato: visto Siri non si è dimesso, lo fa fuori Conte. Secondo molti retroscena, per questa mossa il Presidente del Consiglio sarebbe finito nel mirino di Salvini, che avrebbe in mente di sostituirlo dopo il 26 maggio, in caso di vittoria della Lega alle europee.

 

In realtà, al momento questo scenario è meno verosimile di un ritorno alle urne a settembre-ottobre, perché il M5S – che rispetto al Carroccio ha ancora il doppio dei seggi in Parlamento – non accetterebbe mai di farsi guidare da un Premier d’inclinazione leghista. Senza contare poi che un cambio della guardia a Palazzo Chigi non risolverebbe nessuno dei problemi di questa maggioranza.

 

L’incognita che più minaccia il futuro dell’alleanza pentaleghista, infatti, non è politica, ma contabile. In autunno bisognerà scrivere una delle manovre finanziarie più complicate di sempre, bilanciando un aumento perlomeno selettivo dell’Iva (praticamente inevitabile) con le vecchie promesse leghiste sulla flat tax (praticamente irrealizzabile).

 

Ancora una volta è stato Conte a mettere le mani avanti: “Ovvio che ci piacerebbe realizzare tutto a un tratto una misura omogenea di pressione fiscale molto bassa – ha detto – ma ragionevolmente questo non sarà possibile: teniamo a mantenere i conti in ordine”. Niente flat tax, dunque, ma solo impegni generici su “misure a sostegno delle famiglie” e “riforma del Fisco”.

 

Infine, per completare l’opera, il Premier ha tirato il freno a mano anche su un’altra misura-bandiera della Lega, l’autonomia regionale: “Andiamo avanti, perché quando prendo un impegno lo porto a termine, ma bisogna garantire la coesione nazionale, assicurare livelli essenziali di prestazione a tutti ed evitare che questa riforma contribuisca ad aumentare il divario tra Nord e Sud”. Anche perché è al Sud che i 5 Stelle hanno il loro principale bacino elettorale.

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