“Non si tratta più di capire se aprire la crisi o meno: si tratta solo di capire quando”. Negli ultimi giorni Matteo Salvini risponde così alla folla di leghisti che lo scongiurano di rompere con i Cinque Stelle. Dal sottosegretario Giorgetti al viceministro Garavaglia, passando per i governatori Zaia e Fontana, è lunga la lista dei maggiorenti del Carroccio che vorrebbero far saltare il governo al più presto.

In effetti, l’analisi non è peregrina: ora che la Lega ha più che doppiato il Movimento nei sondaggi (35 a 17%), ora che Forza Italia è implosa e il Pd non ha risolto ancora nessuno dei suoi problemi (coalizione, programma, leadership), per quale motivo il Carroccio non passa all’incasso elettorale? Difficile immaginare un momento migliore per trasformare in seggi l’impennata di consensi registrata nell’ultimo anno e mezzo. Eppure, Salvini non è convinto: non del tutto, non ancora.

Questa indecisione appare inspiegabile a molti dei suoi, anche perché - se volesse - il numero uno della Lega potrebbe aprire la crisi scaricando comodamente la responsabilità su Di Maio. Il pretesto sarebbe la legge sulle autonomie, che giovedì arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri e da mesi spacca la maggioranza come una Tav elevata a potenza.

Il capo del governo, Giuseppe Conte, è convinto che alla fine l’esecutivo gialloverde andrà avanti. Proprio perché la Lega ha il 34% – è il ragionamento – deve comportarsi come un partito nazionale, non più regionale, e con la riforma delle autonomie rischia di sacrificare una buona fetta di voti al Sud. Ne vale la pena?

Il Presidente del Consiglio pensa di no, ma intanto sbollisce in privato la rabbia per gli insulti ricevuti dai governatori leghisti. Non intende firmare una proposta di legge che faccia gli interessi solo di Veneto e Lombardia, danneggiando il resto del Paese, anche perché un testo simile incapperebbe quasi certamente nella censura della Corte costituzionale. Preoccupazioni non condivise da Zaia e Fontana, che negli ultimi giorni hanno coordinato una serie di attacchi al vetriolo contro il governo, nel chiaro intento di destabilizzare la maggioranza.

In mezzo a questo fuoco incrociato, diventa improponibile anche qualsiasi progetto di rimpasto o di revisione del contratto gialloverde, opzioni che pure Conte aveva esplorato nel tentativo di ricompattare le fila.

Se Salvini non avesse già minacciato mille volte la crisi per poi tirarsi sempre indietro, a questo punto tutti nella maggioranza sarebbero certi che questa settimana arriverà lo strappo. Il passato però insegna a sperare: non a caso, Conte cercherà oggi una mediazione nel corso di un vertice con i ministri e mercoledì difenderà Salvini rispondendo in Aula alle domande delle opposizioni su Moscopoli.

Tutto pur di prendere tempo, visto che la finestra elettorale è quasi chiusa: per votare il 29 settembre, infatti, bisognerebbe consumare crisi, consultazioni e scioglimento delle Camere entro il 30 luglio.

Il problema di Salvini è che può decidere di aprire la crisi, ma non di sciogliere le Camere, compito che spetta al Presidente della Repubblica. E anche se la prospettiva di un governo M5S-Pd non convince nessuno – né i diretti interessati, né il Colle – alla fine il Quirinale potrebbe comunque trovare una soluzione, un compromesso per evitare di chiudere immediatamente la legislatura. Ed è proprio questa idea ad alimentare l’indecisione di Salvini.

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