Il governo Draghi contiene tutti i partiti (a parte Fratelli d’Italia), ma al contempo li esclude dalla stesura del Recovery Plan. La partita più importante è affidata a una sorta di Consiglio d’amministrazione interno all’Esecutivo e composto dai tre ministri tecnici più importanti: Daniele Franco all’Economia, Vittorio Colao all’Innovazione tecnologica e Roberto Cingolani alla Transizione ecologica.

Il primo sarà il guardiano della finanza pubblica, mentre il secondo e il terzo smisteranno la maggior parte dei 209 miliardi in arrivo da Bruxelles: le regole del programma Next Generation Eu prevedono infatti che il 37% delle risorse sia impiegato in progetti green e il 20% per il digitale. Nell’ambito di questo Cda, la poltrona di amministratore delegato spetta naturalmente a Mario Draghi, che - per blindare in modo definitivo la missione - ha anche tenuto per sé la delega ai rapporti con l’Unione europea.

 

I tempi sono stretti. Il nuovo governo ha intenzione di riscrivere il Recovery Plan approntato dall’esecutivo uscente e per farlo avrà poco più di due mesi. Il documento deve essere consegnato entro fine di aprile alla Commissione europea, che nei successivi due mesi deciderà se approvare o meno l’erogazione della prima tranche di aiuti, pari al 13% del totale (per l’Italia circa 27 miliardi).

E i partiti? Per entrare nel governo Draghi hanno dovuto accettare un compromesso al ribasso che ha creato una frattura più o meno ampia in tutte le formazioni.

A subire il contraccolpo più pesante è il Movimento 5 Stelle, ormai sull’orlo della scissione. L’ala governista si salva: Luigi Di Maio rimane agli Esteri e ottiene un nuovo incarico per la sua fedelissima Fabiana Dadone (che però viene declassata dalla Pubblica amministrazione alle Politiche giovanili), mentre Roberto Fico incassa la conferma di Federico D’Incà ai Rapporti con il Parlamento. Per il resto, il Movimento perde due dicasteri cruciali: lo Sviluppo economico, dove il leghista Giancarlo Giorgetti sostituisce Stefano Patuanelli (retrocesso all’Ambiente) e la Giustizia, che vede l’uscita di scena di Alfonso Bonafede e l’ingresso di Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale. Una disfatta che non viene mitigata dalle nomine di altri due tecnici proposti da Grillo, ossia Cingolani alla Transizione ecologica e Giovannini a Trasporti e Infrastrutture. Nessuno dei due può essere considerato d’area grillina, visto che il primo andava alla Leopolda renziana, mentre il secondo ha fatto il ministro del Lavoro nel governo Letta.

Risultato: con ogni probabilità il Movimento si spaccherà sul voto di fiducia al governo Draghi, anche se le dimensioni dello strappo non sono ancora chiare. Secondo alcuni i parlamentari dissidenti saranno al massimo 20, secondo altri il doppio.

Meno drammatica ma comunque tesa la situazione in casa Lega, dove la nomina di Giorgetti a uno dei ministeri chiave mette in ombra Salvini, che soffre il rapporto preferenziale fra il suo vice e Draghi. Il segretario leghista ha tentato fino all’ultimo di entrate nel Governo, ma l’impostazione del Premier è stata chiara da subito: via libera alla componente europeista e moderata, al bando i sovranisti. E così adesso Salvini rischia di non essere più l’interlocutore principale delle sue colonne elettorali: gli imprenditori e le partite Iva del Nord. Infine, a destabilizzare la leadership di Via Bellerio contribuisce anche la nomina al ministero della Disabilità di Erika Stefani, vicina a Luca Zaia.

Come Salvini, anche Nicola Zingaretti ha provato a entrare nell’Esecutivo, ma Draghi gli ha sbarrato la strada proprio per non esporsi alle recriminazioni del leader leghista. Alla fine, comunque, il Presidente del Consiglio ha aiutato il numero uno del Pd a stabilizzare la poltrona da segretario accontentando tutte le correnti dem: Andrea Orlando al Lavoro (è la prima volta di un ex Ds dai tempi di Cesare Damiano nel 2006) e Lorenzo Guerini, leader della minoranza interna di “Base Riformista”, alla Difesa. In mezzo, il sempreverde Dario Franceschini, confermato alla Cultura ma privato della delega al Turismo, per la quale viene creato un ministero a parte (a guidarlo il leghista Massimo Garavaglia, giorgettiano della prima ora ed ex viceministro dell’Economia nel Conte 1).

Il nervosismo non manca nemmeno in Forza Italia, visto che Silvio Berlusconi si è visto rifiutare da Draghi tutti e tre i nomi proposti per le poltrone ministeriali (su tutti quello di Antonio Tajani, considerato troppo leader per entrare nel “governo dei vice”). Anche fra gli azzurri, a prevalere sono le personalità meno compromesse con i sovranisti: Renato Brunetta (che torna alla Pubblica amministrazione), Maria Stella Gelmini (al ministero per il Sud e la Coesione) e Mara Carfagna (Affari regionali e autonomie). Questa selezione potrebbe facilitare lo spostamento del centrodestra italiano verso un maggiore europeismo. Oppure il contrario, se Giorgia Meloni farà fruttare il vantaggio competitivo dell’opposizione in solitaria.

Infine, nel recinto di Italia Viva l’unica superstite è Elena Bonetti, che mantiene il dicastero delle Pari opportunità e della Famiglia. È difficile credere che Matteo Renzi - con il suo autoproclamato “capolavoro politico” - puntasse a dimezzare i posti di Iv al governo e a non contare più nulla nella maggioranza. Lui si dice molto soddisfatto di questo esito, ma può darsi che stia bluffando di nuovo. Per capirlo, forse, ci vorrà ancora qualche mese.

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