In periodo d’aghi di pino, nella politica italiana è un pullulare di nanetti che si considerano aghi della bilancia. Ora per il Quirinale, domani per le politiche. Lo saranno davvero? Probabilmente no, ma l’inconsistenza dei grandi partiti permette ai lillipuziani di mettere in scena una commedia niente male. Del resto, definirsi “ago della bilancia” è da sempre il modo migliore per distrarre l’opinione pubblica dalla propria insignificanza.

 

In teoria, i numeri per risultare decisivi i partitini li avrebbero eccome, visto che – sommati – contano qualcosa come 110 parlamentari. Il problema è che sommarli non ha alcun senso, perché il campo politico di cui parliamo è tutto fuorché coeso. Le sigle in gioco sono una dozzina e le più importanti sono due Ego organizzati in forma pseudo-partitica. Il primo è Italia Viva, che ha smesso di fingersi di centrosinistra e pianta radici ogni giorno più profonde a destra (al Senato i renziani fanno gruppo col Psi, perché – ogni tanto è bene ricordarlo – in Italia i socialisti sono a destra). L’altro è Azione, che come simbolo ha la A degli Avengers e come leader Carlo Calenda. Di base, gli azionisti somigliano molto ai renziani, ma attraversano uno stadio evolutivo precedente: fanno ancora finta di dialogare con il Pd, anche se nel loro cuore vorrebbero interloquire solo con Confindustria.

Nella galassia degli aghetti rientrano poi Udc e +Europa, che vivono del riverbero d’una luce spenta da anni, e una serie di micro-realtà che la gente normale non ha mai sentito nominare: dalle due creature di centrodestra create dal Dr Giovanni Frankenstein Toti (Cambiamo! e Coraggio Italia, che al Senato è nel gruppo misto) a Centro Democratico di Bruno Tabacci, passando per Noi con l’Italia di Maurizio Lupi (quanti ricordi) e il Movimento Associativo Italiani all'Estero. Quest’ultimo non va confuso con i rappresentanti delle minoranze linguistiche, banderuole storiche che hanno fatto del trasformismo un elemento di coerenza.

Il denominatore comune degli aghetti è l’origine democristiana, di cui però (a parte Casini) nessuno parla più. Si definiscono “moderati” e “riformisti”, due aggettivi che nella fuffa del politichese brillano per vacuità. In realtà, il vero tratto distintivo di questo campo è la frammentazione condotta all’estremo: i partitini sono divisi fra loro e al proprio interno, al punto che su ogni argomento conta solo l’interesse dei singoli parlamentari, abituati a cambiare gruppo e partito come biancheria.

Il talento degli aghetti sta nel fingere di accorparsi, nel presentarsi - in mala fede - come un cantiere perennemente in costruzione, giudice supremo nella competizione fra i due grandi poli (che in realtà sono almeno tre, ma questo è un altro discorso). E adesso la commedia ricomincia con un obiettivo chiaro: usare l’elezione del Presidente della Repubblica per cercare di sopravvivere a questa legislatura, visto che al prossimo giro di giostra i parlamentari saranno la metà.

Il caso più clamoroso è quello di Matteo Renzi, che da una parte, all’estero, si apparecchia una carriera da pupazzo svendendo il Rinascimento a despoti sanguinari; dall’altra, in patria, briga con Toti e fa gli occhi languidi ai fascistoidi. Ad eleggere il Capo dello Stato “più siamo e meglio è – ha detto l’ex premier alla festa romana di Fratelli d’Italia – sia per un fatto istituzionale di regole sia per un fatto politico, dopo di che dipende. Per la prima volta il centrodestra ha dei numeri in maggioranza: da Fdi a Fi, il 45% dei grandi elettori. Il punto è se il centrodestra prenderà l'iniziativa insieme o no. Stavolta il ruolo di king maker tocca a voi”. Sottotesto: cosa mi date se mi presto alla buffonata di votare Berlusconi?

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