di Fabrizio Casari

Avrete certamente passato un buon Natale. Avrete mangiato più del necessario, bevuto molto più dell’opportuno e, in compagnia delle persone alle quali volete bene, vi sarete scambiati abbracci e baci, in un tintinnìo di calici che svuotavano rapidamente le bottiglie di champagne accampate per l’occasione in ogni dove delle vostre case. Avrete celebrato la nascita di Gesù, palestinese, di cui si ricordano i miracoli e la croce, ma non la cacciata dei mercanti dal tempio; di cui si ricorda l’amore universale me non quello per Maria Maddalena. Proprio pensando a Gesù, tra una fetta di panettone ed un calice, alcuni di voi avranno gioito nel ritrovare le radici della religiosità. Insomma sarete satolli, soddisfatti, a pancia piena e coscienza pulita. Speranzosi in un nuovo anno che sperate migliore di quello che sta finendo o, in alcuni casi, almeno bello tanto quello trascorso. Tutto bene, dunque. O no? Forse non è il momento adatto per parlarne o forse sì. Perché, scusate se lo si ricorda, ma qualcosa, tra le tante che appena disturbano, ci sarebbe. Ha il volto e lo sguardo di quelle centinaia di migliaia di immigrati che non hanno avuto ogni ben di dio sulla tavola e, forse, nemmeno le molliche che vi cadevano. Che hanno brindato a lacrime invece che a champagne e che i loro cari, se va bene, avranno potuto sentirli al telefono, rapidamente; o, cosa più probabile, li avranno sentiti solo nel cuore, gonfio di tristezza e carico di paura. Sono quelle donne e quegli uomini che partono persone e arrivano numeri. Che diventano quote, perché solo quelli di cui abbiamo bisogno possono sperare nella nostra cristiana accoglienza. Arriveranno qui laceri e sconfitti, quelli che ce la faranno, per fornire sussidiarietà a basso costo ed ottenere in cambio lavoro nero, sfruttamento, umiliazioni. Sono uomini e donne che hanno faticato per venire nel nostro paese, hanno rischiato la vita per scoprire l’inferno del nostro paradiso. Sono arrivati su carrette del mare, sfidando la paura e facendo spallucce alla morte per poter immaginare, anche solo immaginare, cosa significhi mangiare. O cosa significhi sperare che un giorno, magari lontano, potranno ritrovare le loro radici, riscattare una vita segnata da un destino infame. Se non incontreranno un Cpt, se non avranno il battesimo della beffa nel danno, troveranno una lingua sconosciuta, un luogo sconosciuto, una sopravvivenza da inventare, un caporale cui obbedire o un padroncino che si sente un padreterno. Saranno senza diritti, pieni di obblighi con al primo posto quello del silenzio, perché l’obbedienza comincia dalla bocca.

Arrivano qui dopo che gli abbiamo impedito di vivere a casa loro, meglio dircelo. Quando il nord ricco e opulento, con solo il 20% della popolazione, consuma l’85% delle risorse del mondo, per i restanti non ci sono molte possibilità. E sembra invece che si suggerisca loro di restare a cogliere briciole, malattie e guerre, affinché noi s’importi solo quello di cui abbiamo bisogno. Con una mano deprediamo, con l’altra teniamo lontani i depredati. Così come prima riempiamo il pianeta d’immondizia, scaricandovi eccedenze e rifiuti dei nostri consumi, e poi chiediamo ai paesi emergenti di farsi carico della riduzione dell’inquinamento. Ma i traffici dei rifiuti parlano chiaro: consideriamo il sud del mondo come la nostra pattumiera. Gli si chiede di tutelare tutti mentre ci facciamo gli affari (sporchi) nostri. Per noi la tutela, per loro gli scarichi. E’ ipocrisia allo stato puro: la consapevolezza del disastro ambientale è venuta a galla solo quando alcuni paesi hanno provato ad industrializzarsi. Sono quelli che hanno deciso di abitare il pianeta, di provare a sfuggire il destino barbaro che li vuole variabili numeriche inclinate verso il basso. In un baleno, da paesi miserabili sono diventati paesi concorrenti. E noi, di colpo, siamo diventati tutti ambientalisti.

Chi invece non può ambire a vivere vicino casa viene a cercare di sopravvivere ovunque. Dietro ognuna e ognuno di loro c’è un luogo, dei volti, un tormento. Davanti a ognuno di loro ci siamo noi, con le pance piene e le teste vuote, consumatori inarrestabili dell’inutile e alacri risparmiatori di buon senso. Hanno sempre un nome, quasi mai un cognome. Sono declinati sui mestieri e nominati con vezzeggiativi, nomignoli ironici, di quella spiritosaggine penosa che pare andare per la maggiore; viviamo, forse sentendoci a nostro agio, in tempi nei quali l’abitudine all’idiozia sembra aver asfaltato il pensiero. Ed è stucchevole scoprire quanto siamo aperti ed esterofili con europei del nord ed americani, canadesi o giapponesi mentre diventiamo arroganti e violenti se sono dell’est Europa o dell’Africa. La differenza è semplice: i ricchi sono stranieri, i poveri sono immigrati. Proprio così: cristianamente, ci mancherebbe, ci piacciono gli stranieri che comprano ma non vendono, che offrono ma non si offrono. Quindi firme e ronde, petizioni e proteste. Poi, tutti a messa, nel santo natale, a stringerci le mani nel segno di pace.

Sono arabi, latinos, romeni e polacchi, filippini e, di volta in volta, quello che servono, quasi sempre quello che non abbiamo più voglia di fare ma del quale abbiamo tutti ancora bisogno. E sono coloro sui quali scarichiamo le nostre inadeguatezze, la schiavitù dei nostri bisogni, le frustrazioni che accumuliamo. Dimentichi di quando emigravamo per mangiare e dar da mangiare, abbiamo rimosso le umiliazioni subite. Eppure sappiamo che loro, gli “intrusi”, fanno il nostro paese né più né meno di come e quanto i nostri padri fecero la fortuna e la vergogna di altri paesi. Che il nostro futuro sarà con loro o, semplicemente, non sarà. Quel palestinese di cui avete appena festeggiato la nascita, se fosse qui, sarebbe sulle strade con loro, non a tavola con noi.


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