di Bianca Cerri


Erano esattamente le sei e un minuto del 4 aprile 1968 quando uno sparo, che rimbombò come un tuono nelle stanze dell’hotel Lorraine di Memphis, mise fine alla vita di Martin Luther King, premio Nobel 1963 e sicuramente il più famoso attivista della lotta per i diritti civili dei neri d’America. I primi ad accorrere furono gli amici Ralph Abernathy e Jesse Jackson, arrivati poche ore prima con lui dalla Georgia. Caricato in fretta su un ‘ambulanza, il leader nero morirà un’ora dopo al Nashville Hospital di Memphis. Alla notizia della fine di King, nei ghetti di centodieci città americane la rabbia dei neri esplose e, negli scontri con la polizia che ne seguirono, 43 persone persero la vita e quasi 5000 rimasero ferite. A New Orleans, i manifestanti furono picchiati con violenza selvaggia dagli agenti. A Chicago, la Guardia Nazionale presidiò per giorni i negozi per impedire che venissero assaltati e il sindaco ordinò di sparare a vista sui rivoltosi. Kansas City rimase sotto assedio per tre giorni e in Colorado arrivarono truppe militari provenienti dalla base di Travis, in Texas. A Baltimora, che insorse per ultima, le strade si trasformarono in campi di battaglia. Fuochi altissimi si levarono nei punti in cui la città si diradava per lasciar posto ai sobborghi. Le comunità nere, da sempre prigioniere della miseria, avevano alla fine deciso di dar fuoco alle polveri e l’America, che aveva ancora le mani sporche del sangue dei seicento civili massacrati pochi giorni prima dal suo esercito a MyLai, in Vietnam, rispose di nuovo con la violenza.

Il nove aprile, Martin Luther King fu seppellito ad Atlanta, in Georgia, alla presenza di oltre centomila persone. Due mesi dopo, gli agenti dell’Interpol arrestarono in Inghilterra James Earl Ray, un ex-militare americano con dei precedenti per rapina. A metà luglio, Ray fu estradato negli Stati Uniti. Pur di non essere giustiziato, accettò di patteggiare la pena e fu condannato a 99 anni di carcere per omicidio di primo grado, con l’aggravante dell’odio razziale in base alle dichiarazioni di alcuni testimoni oculari che affermarono di averlo visto allontanarsi di corsa dal luogo dell’attentato.

La polizia ritrovò una borsa contenente l’arma del delitto abbandonata dall’assassino in fuga, ma 40 anni di inchieste hanno prodotto solo una montagna di documenti inconcludenti. Non è mai stato provato che Ray avesse veramente ucciso King. Jesse Jackson, che si trovava a meno di tre metri di distanza dal leader nero quando fu colpito, non ha mai smesso di credere all’ipotesi di un complotto. Una parte dell’opinione pubblica dubita ancora oggi che uno sprovveduto come Ray possa aver organizzato tutto da solo e la stessa famiglia King non ha mai creduto alla sua colpevolezza.

Nel 1968 a capo dell’FBI c’era Edgard Hoover, che da tempo aveva inserito il nome di King nella lista nera dei personaggi da annientare, e nel giorno dell’attentato l’hotel Lorraine pullulava di agenti federali che andavano e venivano. Già sette anni prima della morte di King, Hoover aveva chiesto al suo vice, William Sullivan, di aprire un’inchiesta su di lui e sulla moglie Coretta, ma tutto doveva avvenire in silenzio, per non dare problemi al Federal bureau. In un biglietto autografo, Sullivan assicurò al suo capo che presto sarebbe entrato in possesso di elementi utili a distruggere l’immagine di King. Solo la morte del leader nero mise definitivamente fine all’ossessione di Hoover sui presunti rapporti dei movimenti per l’avanzamento della gente di colore con i comunisti.

Nel 1998, quando anche James Earl Ray morì senza essere riuscito a scagionarsi dall’accusa di omicidio, Martin Luther King era diventato ormai da tempo una specie di mucca sacra per l’America. Bastava una piccola critica al suo operato per essere accusati di razzismo persino dai conservatori di destra. I più acerrimi nemici di un tempo riuscirono a fare di King una specie di personaggio virtuale addomesticato, adattandolo ciascuno al proprio tornaconto. Quando la Casa Bianca aveva dichiarato il giorno della sua nascita festa nazionale, molti rappresentanti della desta avevano protestato e minacciato di dimettersi dal governo, salvo poi approfittare della ricorrenza per commemorare la figura di King paragonandola a quella di Lincoln e Jefferson, rimproverando puntualmente gli afro americani per aver dimenticato i suoi insegnamenti.

Ciascuno a suo modo, i fanatici della destra religiosa hanno assimilato le battaglie di King chi alle proprie macchinazioni anti-abortiste, fino a fare di lui un apostolo pro-life. I tink tank del governo sostengono di aver modellato il loro statuto sulla scia della sua saggezza e nei salotti di destra si disserta di King come di un federalista convinto o di un seguace del pensiero liberale. Altri ne hanno fatto una bandiera anti-comunista e un sostenitore del libero commercio. Insomma, tra i vari devoti alla sua memoria, ciascuno è riuscito a crearsi un Martin Luther King a sua immagine e somiglianza che però non è mai esistito.

In realtà King fu solo un uomo e, come accade a molti uomini, sentì spesso il richiamo della carne, arrivando a tradire ripetutamente la moglie, pur amandola sinceramente. Le sue battaglie costituiscono ancora oggi uno dei passaggi più belli della storia dei neri d’America ma non mancarono errori di valutazioni. Se la destra americana vuole veramente onorare la sua memoria dovrebbe come prima cosa non servirsene per promuovere piani ai quali King non avrebbe certamente aderito.

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