di Mariavittoria Orsolato

L’ex ministro leghista della Giustizia e nuovo prezzemolino dei talk-show politici, Roberto Castelli, ha pubblicamente affermato che per l’Italia “gli immigrati sono un costo e non una risorsa “. E da quello che ci ha restituito l’ultima consultazione elettorale, lo pensa anche una buona fetta di italiani. A Roma come a Napoli, nella Romagna (ex) comunista come nel ricco e “padano” nord-est. Il problema è che, nella realtà dei fatti, questi flussi migratori sono una benedizione proprio per gli stessi che vorrebbero sorvegliare le coste con i bazooka e che improvvisano, con risultati quantomeno simpsoniani, le ormai gettonatissime ronde di quartiere, nella speranza di scovare qualche malintenzionato rom e di provare così la nuova Beretta, acquistata giusto dopo la modifica della legge sulla legittima difesa, legge targata Berlusconi II. Dei 650.000 immigrati clandestini ipotizzati in Italia, la maggior parte lavorerebbe nella bassa manovalanza e nel campo dei servizi alla famiglia, come le colf o i badanti. Mestieri che un italiano disdegna, mestieri che solitamente non vengono considerati degni di un regolare contratto e vengono sottopagati in maniera imbarazzante. Ne ha dato un’idea l’inchiesta che Bianchi e Lauricella hanno fatto per Annovero lo scorso giovedì e ne da invece un’immagine più cruda e dettagliata il libro di Paolo Berizzi “Morte a 3 euro, nuovi schiavi nell’Italia del lavoro”, in cui il giornalista di La Repubblica racconta il mese passato a fingersi disoccupato per unirsi al silente e multietnico esercito di operai edili che sta cambiando la faccia a Milano al modico prezzo di 3 euro o poco più all’ora.

Troppo spesso infatti ci si dimentica che l’economia non è fatta solo di grandi numeri e multinazionali e che alla base della piramide ci sono persone che pur di lavorare sono disposte ad occupare il gradino che “noi italiani istruiti” rifiutiamo perché troppo faticoso o troppo squalificante o magari perché troppo pericoloso. Delle 1260 morti bianche dello scorso anno è bene ricordare che un quarto di esse erano di cittadini stranieri, perlopiù prestati alle imprese edili affette dal virus del caporalato, in cui si parla sempre di mandarli tutti “a casa loro” ma si dimentica di dire che spesso lo si fa senza aver addirittura pagato la prestazione di lavoro; per non parlare dei polacchi che ogni anno scompaiono misteriosamente nei campi di pomodori pugliesi.

Nella provincia di Verona, ad esempio, in un’isola di 14.600 anime immersa in un mare di campi coltivati quasi esclusivamente a tabacco, ci sono imprenditori agricoli e proprietari di un bel po’ dei terreni che perimetrano il paese e per loro stessa e sconsolata ammissione “non si trovano più italiani che vengano a fare la stagione”, ovvero che non c’è più nessun connazionale che da giugno ad ottobre stia chinato sotto il solleone a tranciare piante che andranno poi (ironia della sorte) letteralmente in fumo. “Se non ci fossero gli stranieri saremmo già rovinati da un pezzo” dicono. E come dargli torto?

Come faremmo ad andare alla cena aziendale senza la badante moldava che si preoccupi che il nonno non rimanga senza ossigeno nella bombola? Come faremmo senza i muratori marocchini a costruire in così poco tempo e poco costo tutte quelle graziose villette a schiera che hanno ingrandito il nostro centro abitato? Come faremmo a far quadrare i conti tra il prodotto, le tasse e i salari in questi tempi di concorrenza spietata senza i cinesi, i rumeni, i nigeriani, da pagare in nero?
Ma in quest’Italia a rovescio, gli stessi che in privato formulano retoricamente queste domande si inalberano pubblicamente in complicate digressioni sulla legalità, la sicurezza e sull’identità culturale italiana, quella che più di tutte sembra preoccupare i (non più) gioviali bolognesi della crociata anti-moschea e che terrorizza i salernitani nell’era De Luca, così come i pescatori siciliani emigrati in Romagna per cercar fortuna. E’ evidente che il Paese è in preda a una sorta di dissociazione, che questa sia indotta dai mezzi di comunicazione è una tesi (ahinoi!) ormai considerata anacronistica dai più.

Purtroppo però è un fatto che si tende a generalizzare con sempre maggior frequenza e sempre più si perdono di vista le cifre. Secondo lo studio pubblicato lo scorso 29 aprile dall’Osservatorio Sociale sulle Immigrazioni del Ministero dell’Interno, gli italiani non hanno una buona percezione dei reali numeri dell’immigrazione: il 71% non ha idea di quanti extracomunitari siano presenti in Italia, mentre il 48% non immagina da dove questi possano provenire. Sempre per rimanere in Veneto, molti si stupirebbero se leggessero i dati che l’agenzia regionale per l’immigrazione ha pubblicato sui flussi reali di immigrazione. Secondo fonti Istat, a fronte degli 880.425 residenti gli immigrati sarebbero solo 72.459, di cui il 67% in età da lavoro, un numero sicuramente inferiore a quello che avevano fatto presagire i militanti leghisti disegnando nei loro comizi gli apocalittici sbarchi di clandestini.

Per snocciolare altri dati utili a curare l’improvvisa cecità italiana - giacché i dati ad oggi sembrano essere le uniche affermazioni credibili - i costi degli immigrati per quanto riguarda la criminalità ammontano a 7 miliardi di euro, mentre i ricavi che gli immigrati con il loro lavoro (regolare o in nero, come dicono i francesi, c’est la même chose) arrivano a 141 miliardi di euro. A quanto sancisce la bilancia economica, dovremmo solamente ringraziare quelli stranieri che scelgono di abbandonare il loro Paese per ricominciare una nuova vita qui. Eppure questa Italia versione destrorsa, fragile e dimentica del suo passato, preferisce addossare all’Aziz o all’Ivan di turno la responsabilità di ogni sua frustrazione e di ogni sua paura senza tentare la strada dell’autocritica.
Come dicevamo prima: e se non ci fossero loro?


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