di Rosa Ana De Santis

Roma si è svegliata sugli striscioni della vergogna, apparsi poco distanti dal Verano, nel cuore della città. Parole di disprezzo e razzismo sulle vittime di Castelvolturno, sulla morte del giovane Abdul. Teste rasate e giubbotti di pelle, una ventina di ragazzi così conciati è quello che riferisce un testimone. Dobbiamo pensare ai soliti violenti di estrema destra, agli irriducibili skinheads, al solito gruppo di cani sciolti giovanissimi e figli della noia sociale. In ogni categoria, sul filo di ogni disquisizione nominalistica sono comunque tutti figli dell’Italia, miseria della patria. Parole pesanti anche su Schifani, per l’occasione ebreo, ma bastano le parole di Verdini a nome di tutta Forza Italia a esprimere fraterna solidarietà per il Presidente del Senato. Non serve una parola di più. Perché tutta la rabbia è contro quest’orda di barbari, tutta l’emozione e ogni pensiero va per queste vittime. Un ragazzo morto sotto i bastoni impietosi di due mercanti milanesi, e a Castelvolturno sei giovani uccisi sotto i colpi della gomorra campana. Casi assai diversi, da guardare ancora meglio. Accomunati dal nero della pelle. Casuale coincidenza, fatalità della cronaca, eppure tutti neri. Un regolamento di conti, vittime e basta, tutto questo lo diranno le indagini. Ma di sicuro meno difesi degli altri e tutti morti per mano del carnefice italiano.

Il fiume delle polemiche sulle proteste eccessive dei ghanesi che hanno distrutto auto e vetrine per difendere i loro morti, trovano il posto che meritano. Un ruolo preciso nei colpi di fioretto tra legittimità e legalità. Da biasimare certamente, ma senza il pretesto di raccogliere il fatto per nascondere le ragioni. Una tentazione questa che conosciamo bene. Occultare la sostanza per inseguire la sfumatura di un nome e di una diatriba giudiziaria come sempre millenaria. La sostanza al fondo degli eventi si chiama camorra, criminalità. Le scene sono quelle di gente che intanto sa scendere in piazza, che sa gridare, che sa sfidare.

Con la polizia dall’altra parte. Nessuno sta con loro. Se non sono delinquenti sono stranieri, se sono stranieri saranno per tutti clandestini. Se sono italiani, come lo era Abdul e la sua famiglia, uno di noi, allora semplicemente non sei bianco. E tutto prende una luce meno accecante, tutto sfuma nella condanna e nella memoria. E il volgare razzismo italiano, i finti comunisti, i buonisti della sinistra storica, il finto cattolicesimo non gridano più niente. Perché niente è quello che sono diventati.

Mentre sfilano di paese in paese le immagini delle persiane chiuse e dei criminali invisibili, il Ghana che è da noi scende in piazza, nelle nostre piazze. Che oltraggio, sussurra il coro unanime. Tranne qualcuno di noi che porta un fiore e lascia un biglietto sulla serranda bagnata di sangue. Perché qualcuno non trova scuse, né attenuanti nel colore della pelle, né sul passaporto, né sulla clandestinità.
Allo stesso modo la furia delle sprangate sul corpo di Abdul non è stata – dicono - alimentata da odio razziale. Eppure Fausto e Daniele Cristofoli hanno colpito a morte un giovane sospettato di aver rubato qualche biscotto dal loro negozio. Eppure Abdul non era bianco. Eppure sullo striscione c’è scritto “Milano-1”. Il martire negro si presta bene alle campagne discriminatorie e fasciste; eppure nessuno si è troppo distrutto a ragionare sull’efferatezza del delitto, sul modo criminale con cui è stata ucciso. Ma non è per razzismo, non è per il colore della pelle, non è perché fosse nato in Burkina Faso e non sotto i Navigli. Solo era un negro. Forse un ladro. E questo basta a dimenticare ogni giorno un po’, e ogni giorno sempre più velocemente.

Non stupiscono le condanne trasversali che arrivano sulle scritte di questi poveretti che minacciano notte tempo gli stranieri, o soltanto gli africani. Da Gasparri alla Finocchiaro le parole severe di condanna doverosamente si assomigliano. E come potremmo raccontare un’altra storia?

Ma quello che impensierisce, la minaccia vera, non è quella dei ladri di notte, che scrivono- mascherati da nazisti - striscioni da tifoseria becera. Il nemico vero cammina ogni mattina nelle strade delle città. Stretto al fianco dei loro fazzoletti bianchi sui cui stendono le merci da vendere, o al piano di sotto delle case da cui esce l’odore del cous cous.

Il nemico vero sono tutti gli assenti al funerale di Abdul. Quelli che, ancora nel Sud, mettono il viso tra le mani urlanti, senza muovere un passo sulla via della legalità. Basta alle prediche vane. Tutti questi sono quelli che dicono con semplicità e fermezza di non essere razzisti e che un attimo dopo scrollano le spalle con sufficienza per la strage dei sei africani e per la fine ingiusta di Abdul.

Così quel padre negro, pacato e distrutto di dolore, che chiede giustizia e non vendetta, alla fine cosa vorrà mai da noi italiani. Tornasse al suo paese. Così non sarebbe successo mai. E questo autentico razzismo, vero fino al midollo, vegeta vile sulle spalle di tanti e purtroppo non sta appeso a caratteri neri su alcuno striscione. Chi lo condannerà? Chi perdonerà?

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