di Rosa Ana De Santis

La notizia di embrioni clonati arriva dall’università del Kentucky, l’ennesimo annuncio shock del contestatissimo dottor Zavos. Una cartolina dal futuro che ha il colore del petrolio, ma che riscuote l’attenzione di una morbosa curiosità intellettuale. La sensazione è di voler misurare la distanza con questo confine che intimorisce e, nello stesso tempo, di volerne sapere di più. La clonazione evoca nell’immaginario collettivo scene da cinema: una terra lunare sotto un cielo a tinte argentate, una popolazione di supereroi immortali, pelle ambrata e occhi celesti, maschi e femmine androgine, capacità fisiche sublimate in perfezione, intangibili talloni di Achille di una popolazione olimpica che può morire solo in planetarie apocalissi. Non c’è stato nulla di tutto questo nel laboratorio dove 11 dei 14 ovociti clonati sarebbero stati impiantati in quattro donne. C’è solo, e basta per ricavarne un momento di sana sospensione del giudizio, l’avvento di una generazione gemmata come una protuberanza vegetale, nata in assenza e deliberata rimozione di differenza, nel culto di una genesi semplificata e ridotta ad un’operazione di abilissima copia.

Un salto concettuale che travalica limiti logici e morali. Se l’uomo del Novecento divideva se stesso in uno, centomila e nessuno, come scriveva Pirandello, entrando dentro il labirinto incoerente dell’animo e della mente umana, assistiamo ora all’operazione inversa con il rischio insidioso di tornare indietro mentre ci pensiamo oltre la linea di luce del futuro. L’ipotesi di un genere umano moltiplicato secondo un codice uno e unitario, monolitico e adifferenziato.

A filmare l’impianto dei cloni ci ha pensato questa volta Peter Williams, per Discovery Channel. Ha replicato subito, immancabile censore, il nostro genetista, Bruno Dalla Piccola, il quale ha invocato prove di laboratorio a dimostrazione della veridicità e utilità di questo esperimento. Il dubbio viene a causa di analoghi annunci, mai dimostrati, fatti in passato da Zavos. Questa volta dovrebbe essere vero. Si sono sottoposte alla tecnica tre coppie sposate ed una donna single. Nessuna gravidanza è stata portata a termine, ma siamo alle fasi iniziali di un processo che ci consentirà di produrre cloni di esseri umani dalle cellule di uno dei due genitori.

In passato sono stati clonati embrioni umani per la ricerca scientifica e per la produzione di cellule staminali a scopo terapeutico. Qui siamo di fronte a un caso molto diverso. Non è la cura, non è il progresso della scienza medica, è la produzione di figli clonati dalla pelle dei genitori. Non è poi così fondamentale stabilire quanto ci sia di vero nell’esperimento di Zavos o quale arco temporale sarà necessario per realizzare questo progetto, ma interrogarsi su quale ne sia il fine e l’utile e quindi l’intenzione. Nel 1996 il caso della pecora Dolly aveva suscitato interesse e qualche sorriso di consenso e benevolenza che sembra spegnersi quando il clone sarà un uomo e una donna, una coscienza e un’esistenza.

Un approccio speculativo sano e non condizionato da sovrastrutture religiose dovrebbe, come primo passo, portarci a sgombrare il campo dalla paura e forse anche a rivedere la censura culturale che incombe su questo tema in modo incondizionato. Certo è che chiunque nella comunità scientifica, a partire dalla clonazione per cellule staminali, abbia alzato il tiro annunciando la clonazione di esseri umani è stato allontanato e costretto a un silenzio di prudenza, per usare un eufemismo, sul tema. E se questa tecnica fosse l’unica chance per alcune coppie di avere un figlio? E se servisse per curare la malattia di un fratello o sorella già nata? Non è alla fine una tecnica come altre che consentono di disporre dell’origine della vita come altre tecniche di diagnosi o di fecondazione assistita? Cosa cambia? Non è un modo per rendere disponibile alla scelta umana ciò che la natura, senza scienza, un tempo rendeva indisponibile?

Secondo John Harris, noto studioso di bioetica che più di altri ha spinto l’indagine filosofica su queste frontiere della bioetica, non ci sono, almeno non tutti, i rischi propagandati da una scenografia semidivina attrezzata ad arte, allo scopo di paralizzare ogni azione e ogni tentativo di analisi da parte degli studiosi, originando nella cultura del duemila delle nuove Colonne d’Ercole. Secondo Harris due esseri umani clonati non necessariamente avranno due esistenze identiche. Un clone inoltre non avrà mai lo stesso intero patrimonio genetico del soggetto da cui si origina, dato che non erediterà il DNA mitocondriale, differenziandosi in questo modo più di un gemello monozigote.

La clonazione aprirà le porte ad una serie di interventi di ingegneria genetica che consentiranno di proteggere l’embrione da virus e altre malattie. Si può scegliere di obiettare alle ragioni di Harris, alla sfrontatezza del suo ragionamento che si spinge spavaldo a un’idea transgenica della vita, che ha rimosso ogni valore del limite, che è forse fin troppo semplice. Quello però che non si può fare è far calare un silenzio condito di tabù religiosi su qualcosa che accade e sta accadendo in tanti laboratori. Era il 2004 e in Corea la clonazione terapeutica era già cronaca grazie al lavoro dell’università' di Seul guidato da Woo Suk Hwang, e a quello dell'universita' del Michigan diretto da Jose Cibelli.

Per una volta la riflessione sul limite e sulla ricerca di regole etico-morali non dovrebbe arrivare a giochi conclusi, a mettere gli steccati e le proibizioni, a lavorare sull’errore del legislatore e le sue inevitabili lacune. Per evitare questo sarebbe opportuno abolire i censori. Dare libertà al pensiero e al giudizio gestendo l’inevitabile arcaica tentazione umana al timore. Scriverne e parlarne subito e molto.

Forse la clonazione porta con sé il rischio e l’orrore grande di costruire identità sovrapponibili, di veicolare messaggi di identitarismo che nuocciono agli sforzi di pensare la comunità umana come una rete che sa pensare e gestire la differenza come categoria principale dell’esistenza. Forse è vero tutto questo e, forse, tutto questo può bastare a stabilire un vincolo per il quale ogni tecnica di clonazione sia subordinata a finalità terapeutiche. Ma forse il criterio della china pericolosa e della possibile deriva di utilizzo mercantilistico e immorale degli embrioni clonati non è un modo giusto di ragionare sull’argomento in sé. E’ un approccio carico di pregiudizi che lasciamo volentieri agli uomini di fede.

E se è vero che la clonazione naturale di due gemelli monozigoti ci insegna che due DNA identici possono avere percorsi esistenziali molto diversi, è vero anche che in gioco non è la nascita o la morte e i limiti primi e ultimi della vita biologica di un individuo, ma la vita intera nell’atto di creazione-generazione che la fonda. Perché dovremmo in questo caso usare argomenti diversi da quelli che portano a legittimare le tecniche di procreazione artificiale o la dolce morte e tutto quello in cui l’uomo interviene alterando il corso della natura?

La preoccupazione, e non è poco, che il mondo si popolerà di uomini e donne duplicati e s’impoverirà del valore intrinseco che esiste ogni qual volta incontriamo l’altro, colui che a noi non assomiglia affatto e in niente. Un mondo autoreferenziale e identitario è un pianeta in bianco e nero, morto mentre vive e disabitato anche se affollato. Dio caduto dal cielo. Ma sapremo fermarci mille volte prima di arrivare a questo estremo solo se ogni ricerca, ogni analisi, ogni tentativo di capire e approfondire, non sarà stato mortificato dalla liturgia della paura.

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