di Vincenzo Maddaloni

Da quando è entrato in vigore - 1 aprile - il regolamento che stabilisce le modalità di esercizio del diritto d’iniziativa dei cittadini europei, le lobby hanno un’arma in più, peraltro formidabile, per poter introdurre norme a loro favorevoli senza dovere laboriosamente intervenire per fare approvare, bloccare o modificare le proposte della Comunità europea e dei i suoi deputati. In termini di efficienza, se non altro è per costoro un bel progresso che non sarebbe stato possibile senza questa nuova norma introdotta dal trattato di Lisbona.

Infatti, il nuovo diritto d'iniziativa popolare riconosce a tutti i cittadini europei la facoltà di contribuire a determinare le politiche dell'UE. Esso consente a un gruppo di persone che condividono una stessa posizione di chiedere alla Commissione di proporre una nuova legislazione su un argomento specifico. La Commissione, alla quale spetta il compito di presentare le nuove proposte legislative in ambito europeo, è formalmente tenuta a prendere in esame qualsiasi richiesta che soddisfi i requisiti previsti. Beninteso, essa avrà tutti i poteri per respingerla entro i tre mesi successivi, a patto che si prenda la briga di spiegare pubblicamente il perché, il che molto difficilmente accade.

Naturalmente per obbligare la Commissione europea a prendere in considerazione una proposta di legge d’iniziativa popolare occorrerà raccogliere non meno di un milione di firme in almeno sette paesi UE e superare un lungo percorso a ostacoli burocratico. Se passerà indenne tutti gli esami, la proposta legislativa - recita il regolamento - sarà sottoposta al Consiglio dell'Unione europea (dove siedono i governi dei Paesi dell'UE) e, nella maggior parte dei casi, anche al Parlamento europeo. Se viene adottata, diventa una legge.

Ma chi dispone dell’apparato e dei fondi necessari per organizzare una campagna di sensibilizzazione di una tale vastità e nel contempo affrontare le complesse procedure richieste? Sicuramente le lobby finanziarie, le grandi multinazionali per esempio che dedicano un’attenzione speciale all’UE, poiché essa ha le leve di comando concentrate in poche e ben definite sedi, e poi perché nella quasi totalità dei casi il diritto comunitario prevale sul quello di ogni singola nazione che ne fa parte. Migliaia di lobbisti, centinaia di società di pubbliche relazioni e studi legali, dozzine di think tank e di “uffici d’affari europei” di centinaia di imprese si sono allocati a Bruxelles da quando hanno capito molto bene, che quello è il posto giusto per esercitare pressioni ottenendo dei risultati che rispondono alle aspettative.

Si tenga a mente poi, che la NATO e l’UE hanno entrambe la loro sede centrale a Bruxelles. Del resto la NATO, sebbene non si a tutti noto, ha tra le sue prerogative istituzionali quella di esercitare una diretta ingerenza nelle questioni economiche dei Paesi membri. Infatti, l'articolo 2 del Patto Atlantico prevede e sollecita l'integrazione economica tra i Paesi membri dell'alleanza o tra gruppi di essi: «Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte. Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.» (Patto Atlantico, articolo 2).

Dunque la NATO si configura con un assetto nel quale i centri decisionali sono tanti e tutti in bella evidenza. Il loro é un lavoro minuzioso, a volte fino allo spasimo per fare in modo che molte delle direttive internazionali vengano spalmate in modo che appaiano come fatti di politica interna in quei Paesi che più di altri sono interessati a tener nascosta all’opinione pubblica la “dipendenza” dagli Stati Uniti. Il fatto - ad esempio - che Mario Monti sia addirittura un "advisor" del Consiglio Atlantico, l'organo supremo della NATO, la dice lunga su questa dipendenza che in diversa misura coinvolge tutti Paesi dell’UE.

Un esempio tra i tanti è la spinta alle privatizzazioni a tappeto - imposte dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca Centrale Europea - sebbene esse non siano funzionali allo sviluppo industriale, bensì a quello finanziario. Le stesse lobby hanno declassato il liberismo a un semplice slogan per coprire l'assistenzialismo ai banchieri con il programma "Financial & Private Sector Development" della Banca Mondiale, la quale per evitare il panico tra i risparmiatori parla di privatizzazione invece tampona col rifinanziamento il settore.

Siccome con l’approvazione del “Diritto di iniziativa” i lobbisti aumentano il loro potere, di conseguenza  anche Bruxelles accresce la sua fama di  sede ideale per i giochi di potere, conquistandosi un posto di tutto rispetto nella costellazione dei gruppi di pressione. Come ha scritto Gabriela Anghel non senza ironia:«Funzionari, diplomatici, lobbisti e giornalisti si incontrano dalla mattina alla sera, pranzano nel quartiere Europe, cenano nel quartiere Des Sablons, partecipano a cocktail party, si frequentano la sera e durante i fine settimana, membri di uno stesso club dedito a una nobile causa: l’Europa e il suo benessere!». (http://www.romanialibera.ro/).

Infatti, è in uno scenario come questo descritto - tra i più ambiti dai rappresentanti dei poteri mondiali - che s’incontrano e si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bildelberg club e della Goldmann-Sachs, insomma dei reggitori dell’impero economico globale. Comunque essi siano, ne esce sempre una sorta di consorteria più o meno rabberciata, ma ricolma di danaro e di potere che vuole imporre la propria visione sui grandi fatti che fanno la storia del mondo. Una di queste mira a far apparire gli americani non più come gli imperialisti da combattere, bensì come i benefattori da amare.

Si tenga a mente che dopo l’aggressività della presidenza Bush, si è tornati con Obama alle tradizionali tattiche di understatement  per “ricostruire” l’immagine di un Paese che di fronte a una Cina emergente si mostra pronto ad abdicare al ruolo di prima potenza economica mondiale, pur di scrollarsi di dosso l’imbarazzante nomea di potenza imperialistica per eccellenza. Sicché d’ora in avanti anche ai più avversi al drapeau a stelle e strisce si spiana la strada qualora volessero diventare filoamericani, poiché non avrebbero più motivi per sentirsi in  colpa. Se questa strategia così sapientemente distillata dovesse diventare una realtà condivisa, le mille e una basi militari USA e NATO, che controllano capillarmente ogni spazio strategico d’ Europa, diventerebbero un dettaglio di scarsa importanza del paesaggio e potrebbero continuare ad operare del tutto indisturbate.

Insomma, la nuova norma voluta dal trattato di Lisbona giova non poco alle grandi multinazionali hanno a disposizione una sorprendente capacità di fuoco a sostegno di una guerra psicologica che per molti versi ha gli effetti devastanti delle bombe. Spiega Ajay Kapur, l’analista indiano autore di uno studio nel quale teorizza l'avvento di una “plutonomia”, cioé un sistema in cui i ricchi definiscono le leggi, scrivono le regole, dettano l'agenda ai leader del mondo. Gli Stati Uniti, Inghilterra e Canada sono per Ajay Kapur i "modelli" originari di plutonomie nel XXI secolo, come in passato lo furono la Spagna del XVI secolo, l'Olanda del XVII, e la stessa America nei ruggenti anni Venti alla vigilia della Grande Depressione.

Lo studio di Ajay Kapur che risale a qualche anno fa (l’analista indiano era allora lo stratega del colosso bancario Citygroup a Wall Street, mentre adesso decide le strategie della Deutsche Bank in Asia) rimane quanto mai attuale. Infatti, esempio classico di “plutonomia" è la Goldman Sachs che ha attivi superiori alla Banca Centrale Europea, la quale gestisce la moneta di diciassette Paesi. La sproporzione non cambia se si guarda al fondo d'investimento Blackrock di Wall Street che amministra un patrimonio (3.500 miliardi di dollari) superiore alle riserve di qualsiasi banca centrale al mondo, inclusa quella cinese. Insomma la gestione di maree di danaro ad opera di pochi avvaIora un’opinione diffusa secondo la quale chi ha i soldi centellina pure la democrazia.

Ne è una riprova - ad Est come ad Ovest - quella strategia amplificata dai media che mira alla rivalutazione della funzione dei ricchi, fino a rappresentarla come ineludibile per l’evoluzione delle società del XXI secolo. E’ un’azione ben concertata con i grandi mezzi di comunicazione di massa con la quale si fa leva su una costante, quasi maniacale, denigrazione dei poveri. Il messaggio che si trasmette alle genti è quello dei ricchi impegnati a far crescere la società nel benessere, mentre i poveri con i loro momenti di disordine e disperazione frenano la realizzazione del grande progetto.

Così si spiega perché le iniziative dei sindacati - ad esempio - vengano fatte apparire come perniciose allo sviluppo della società e perciò l’invito  che viene trasmesso è di ostacolarle, combatterle, fino all’annientamento totale di chi le propone e di coloro che le sostengono. E’ uno scenario che è diventato cronaca quotidiana ormai e non soltanto in Italia. Sicché ci vuol poco a capire che la semplice gestione di quel “diritto d’iniziativa” previsto dal trattato di Lisbona in termini di efficienza, se non altro, è un bel progresso. Per chi se lo agguanta per primo.

www.vincenzomaddaloni.it

 

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