di Agnese Licata

Terapie antidolore, uso farmaceutico della cannabis, testamento biologico, rifiuto dell'accanimento terapeutico, sospensione delle cure di sostegno vitale, eutanasia. Di tutto questo si è tornati a parlare, da circa un mese a questa parte; da quando, dopo Terry Schiavo, un altro caso, questa volta tutto italiano ( Piergiorgio Welby), ha di nuovo tirato fuori i tanti interrogativi che ruotano attorno al rapporto tra malattia e dignità umana. Fino ad ora le risposte della politica hanno visto più che altro tanti distinguo e poca concretezza. L’unico provvedimento che ha iniziato ad assumere connotati concreti riguarda la prescrizione di farmaci contro il dolore. Giovedì scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge proposto dal ministro della Salute Livia Turco, con il quale s’intende semplificare le procedure per la prescrizione di farmaci oppiacei. Inoltre - se il testo verrà portato e votato in Parlamento senza subire modifiche - l’uso di questi medicinali verrà esteso non solo a malati terminali oncologici (come avviene attualmente), ma anche ai cronici e agli invalidi permanenti. Ma la parte più controversa del ddl è un’altra e riguarda la decisione d’inserire tra i farmaci antidolore prescrivibili, anche due prodotti che contengono la sintesi chimica del principio attivo della cannabis. Nonostante il disegno di legge sia molto distante da esperienze come quella olandese – dove, oltre a utilizzare direttamente il derivato della canapa naturale e non la sua sintesi chimica, esiste la coltivazione di Stato della cannabis – Alleanza nazionale e Lega non hanno esitato a confondere le acque, tirando in ballo il fantomatico rischio che così il governo voglia aprirsi la strada per la legalizzazione delle droghe leggere. Come spesso accade, il giorno successivo alle dichiarazioni dei suoi, Gianfranco Fini si è affrettato a smorzare i toni, dichiarandosi favorevole all’uso di questi farmaci, a patto che non escano dagli ospedali, escludendo così dal trattamento quei malati gravi che vengono assistiti in casa propria.

Le cosiddette cure palliative rappresentano la punta di un dibattito più ampio e sfaccettato, che ha al centro il concetto di dignità. Come garantire a chi già porta su di sé il fardello della malattia e del dolore, almeno la possibilità di vivere tutto questo senza dover rinunciare alla propria dignità? Oggi, quando ci si trova in un ospedale, debilitati nel corpo e/o nella mente, le minacce all’autodeterminazione si moltiplicano: accanimento terapeutico; impossibilità di rendere preventivamente vincolanti le proprie volontà terapeutiche; macchinari che si sostituiscono alle funzioni vitali di corpi che ormai hanno perso le loro funzionalità fondamentali. In poche parole, “una medicina che cura sempre di più e guarisce sempre meno”, come scrive Umberto Veronesi su La Repubblica (19 ottobre).
L’appello di Welby, l’immagine del suo corpo immobilizzato da una sclerosi multipla progressiva che annienta il corpo e imprigiona la mente, è tornata a ricordare che dietro a certi discorsi astratti e filosofici sulla sacralità della vita, ci sono persone in carne e ossa, che chiedono solo di poter scegliere della propria vita. In tutto questo, la legislazione italiana non aiuta per niente: non affronta il problema della terapia di sostegno vitale (utilizzo di macchinari per l’alimentazione e la respirazione forzata), non contempla le direttive anticipate di trattamento (più comunemente noto come testamento biologico o testamento di vita), mentre sull’eutanasia non s’intravede neanche la volontà di aprire un dibattito serio.

Di questi discorsi, lunghi anni, di più o meno concreto restano solo i tiepidi (e per nulla vincolanti) pareri d’indirizzo del Cnb, il Comitato nazionale per la bioetica (istituito presso la Presidenza del Consiglio) e qualche disegno di legge risalente alla scorsa legislatura. Nella pratica quotidiana sopperiscono solo in minima parte codici deontologici e giurisprudenza. Per il resto, tutto pesa sulla discrezionalità dei medici. E proprio in questi giorni, una parte dei medici ha fatto sentire il proprio disagio di fronte a questo vuoto normativo. Si tratta del personale che lavora in terapia intensiva, in quello che Adriano Sofri ha definito “limbo di corpi in aspettativa”.

A Pesaro si è svolto il meeting annuale del Gruppo italiano per la valutazione degli interventi in terapia intensiva (GiViTi). Il tema caldo è stato quello della sospensione delle cure. Un ambito, questo, dove delineare regole precise sarebbe fondamentale, considerando che raramente il paziente è in grado di esprimere la propria volontà. Da una ricerca effettuata dallo stesso GiViTi in 84 sale di rianimazione risulta, infatti, che in più dell’80 per cento dei casi prevalgono alterazioni della coscienza, stress estremi o sedazione farmacologica.
Su questo aspetto, il codice deontologico dei medici stabilisce che “il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” (art. 37), quindi solo in caso di elettroencefalogramma piatto. Anche per la giurisprudenza, i medici che interrompono una qualsiasi terapia che garantisce la sopravvivenza del paziente possono incorrere nel reato di lesione personale o omicidio. Leggendo un recente parere del Cnb (2005) si nota come cambi l’argomentazione, ma non l’idea di fondo. Per il Comitato, infatti, alimentare e far respirare un paziente in stato vegetativo permanente è equiparabile al “fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente”; quindi il medico deve necessariamente continuare a fornire queste terapie, anche se questo significa muoversi pericolosamente verso l’accanimento terapeutico, anche se il paziente stesso si era dichiarato contrario.

Il problema è che anche il dibattito politico degli ultimi anni non va molto lontano da qui. Nel 2003 un parere del Cnb ha posto due paletti ben fermi: da un lato il testamento di vita non può riguardare tutti gli interventi medici, ma solo quelli “non in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui in scienza e coscienza inaccettabili”. In più, anche per quelle terapie su cui il paziente può scegliere, non si vuole istituire l’obbligatorietà. I pazienti, però, potranno consolarsi con il fatto che i medici dovranno “giustificare per iscritto le azioni che violeranno tale volontà”. Quest’ultimo principio era stato accolto anche da un disegno di legge a firma Tomassini e risalente al 2004 (n. 2943).

Certo, la principale criticità del testamento biologico non è di poco conto. Il problema dell’attualità delle disposizione del paziente a distanza di tempo e, soprattutto, in condizioni di vita diverse, ha un suo fondamento. Ma se si evita di burocratizzare tutto (il ddl di Tomassini pensava a un testamento di vita redatto per atto pubblico notarile, invece di una forma più flessibile e accessibile a tutti) e si indicano procedure facili per modifiche e revoche, sarebbe possibile ridimensionare in modo consistente il problema. A ridurre il margine d’incertezza contribuirebbe anche la nomina di un fiduciario da parte del paziente, che diventi garante della dignità di un essere umano che chiede solo di poter decidere del proprio corpo, nella vita come nella malattia e nella morte.

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