di Tania Careddu

Vuoi per un saldo naturale, vuoi per un saldo migratorio con l’estero, vuoi per le operazioni di assestamento e revisione delle anagrafi, sta di fatto che la popolazione italiana si riduce. Nel 2015, perde centotrentanove mila unità. Diminuisce con maggiore intensità nel Mezzogiorno, in Liguria, Valle d’Aosta, Basilicata e Marche, con un’inversione di tendenza in Lombardia e Trentino Alto Adige. Un cambiamento rilevante nel contesto storico di un Paese che dal 1952 in avanti aveva sempre visto crescere la sua popolazione.

Medici, epidemiologi e demografi sono in allerta. Si, perché il 2015, oltretutto è stato anche l’anno dei decessi. Cinquantaquattro mila in più rispetto al 2014. Pochi nella provincia di Bolzano, molti in Valle d’Aosta. Più femmine che maschi, di ottantaquattro anni circa versus ottantanove per le donne. Fattori climatici ed epidemiologici alla base della mortalità, il picco del 2015 porta con sé, però, significativi effetti strutturali vista la particolare concentrazione dell’incremento di mortalità nelle classi d’età molto anziane.

In secondo luogo, è accertato che l’impennata rappresenti una risposta proporzionata e contraria alle diminuzioni di mortalità riscontrate negli anni precedenti. Anche se l’aumento della mortalità non ha rallentato il processo di invecchiamento della popolazione. Che prosegue inesorabile il suo cammino: la Liguria è la regione con l’età media più alta, seguita dal Friuli Venezia Giulia e dalla Toscana. La più giovane, la Campania.

E, nel 2015, diminuisce pure la speranza di vita, in particolar modo per le donne. E anche le nascite. Nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi: ben quindicimila in meno rispetto all’anno passato. Non solo non viene più garantito il ricambio generazionale ma da nove anni a questa parte continua a peggiorare. In parte riconducibile alla trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda, il tasso di natalità scende in tutta la Penisola uniformemente, con picchi in Liguria e in Sardegna.

E laddove il Belpaese è più fecondo (terzultimo nella classifica europea), si nota, in ogni caso, una riduzione del numero dei figli per donna, che in media sposta in avanti l’età per concepire il primo. Il protrarsi degli effetti sociali della crisi economica, con difficoltà lavorative e abitative connesse e un generale senso di precarietà annesso, rallentano la progettualità genitoriale. Al calo demografico, poi, hanno contribuito i centomila cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero e sono stati depennati dall’anagrafe italiana. Un dato in aumento rispetto al 2014.

E se la contrazione delle nascite, cosi come riporta l’Istat, interessa soprattutto le coppie italiane, anche i nati da stranieri stanno diminuendo, dando l’idea di una tendenza, vera per tutti, che va consolidandosi, del cambiamento dei modelli culturali di famiglia. In barba ai movimenti profamiglia e ai rigurgiti cattolici.

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