di Tania Careddu

In Bielorussia, in Cina e in Vietnam è segreto di Stato. Nella Corea del Nord, nel Laos, in Malesia, in Siria e nello Yemen, le informazioni a riguardo sono soggette a restrizioni governative. Ma bastano le notizie a disposizione per poter sostenere che la pena di morte è utilizzata ancora, nel 2015, in maniera preoccupante.

E sebbene quattro Paesi - Repubblica del Congo, Figi, Madagascar e Suriname - l’abbiano abolita qualsiasi sia il reato, milleseicentoquattro persone sono state messe a morte, cinquecentosettantatre in più rispetto all’anno precedente. L’89 per cento del totale delle esecuzioni è avvenuto in soli tre Paesi: Arabia Saudita, in cui sono aumentate del 76 per cento, Iran con un incremento del 31 per cento, e Pakistan, dove sono state le più numerose mai registrate.

Ciad e Oman hanno rimesso in moto la macchina della morte dopo anni senza uccisioni; idem il Bangladesh, l’India, l’Indonesia e il Sud del Sudan. Decapitazioni, fucilazioni e impiccagioni, le pratiche più utilizzate; sparita, almeno nel 2015, la lapidazione.

E non solo è la pratica più disumana del mondo, ma, la pena capitale, viene addirittura applicata contravvenendo (regolarmente) al diritto e agli standard internazionali. Su individui che non hanno ancora compiuto diciotto anni; per reati che non raggiungono la soglia dei ‘reati più gravi’, tipo quelli economici, come la corruzione, per rapina a mano armata, adulterio, stupro, rapimento e ‘offese al profeta dell’Islam’; dopo procedimenti penali che non hanno rispettato le procedure internazionali sul giusto processo; e su persone con disabilità mentali e intellettive.

Usata in risposta alle minacce, reali o percepite, alla sicurezza pubblica e a quella dello Stato, per reati legati al terrorismo o per aver guidato una presunta organizzazione terroristica, per far fronte a un’’emergenza nazionale’ relativa ai decessi legati alla droga.

Fortunatamente, i Paesi che ancora contemplano la pena capitale stanno diventando una minoranza e la tendenza complessiva di lungo termine è verso l’abolizione della stessa: la Mongolia ha approvato un nuovo codice penale che entrerà in vigore a settembre di quest’anno, il governatore della Pennsylvania ha istituito, a febbraio, una moratoria sulle esecuzioni, la Malesia ha annunciato riforme per rivedere le leggi riguardanti la pena di morte con mandato obbligatorio, Burkina Faso, Corea del Sud, Guinea e Kenya hanno preso in esame leggi mirate all’abolizione.

E anche all’interno delle istituzioni, cominciano a farsi sentire voci dissonanti. Come quella di un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Stephen Breyer, riportata nel dossier Condanne a morte ed esecuzioni 2015, redatto da Amnesty International, che, il 29 giugno, dichiarava: “Probabilmente la pena di morte, in sé e per sé, costituisce in questo momento una ‘punizione crudele e disumana’ proibita dalla legge”.

E, poco prima di lui, il 16 giugno, il presidente della Mongolia, Tsakhiagiin Elbegdorj: “Il fondamento della giustizia è il rispetto per la dignità umana. In nessuna circostanza, la pena capitale può essere accettabile”. Intanto, a fine 2015, ventimila e duecentonovantadue persone erano (ancora) detenute nei bracci della morte.


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