di Bianca Cerri

Tutto ebbe inizio nel 1981, quando i bollettini dei Centri per il Controllo delle Malattie di Atlanta e Los Angeles, segnalarono due casi di una patologia sconosciuta e mai classificata prima, che presto sarebbe divenuta tristemente nota in tutto il mondo con il nome di AIDS o sindrome da immuno-deficienza acquisita. Poiché il virus aveva colpito solo maschi bianchi e dichiaratamente omosessuali, virologi e ricercatori si limitarono inizialmente a fare solo vaghe supposizioni espresse con quel leggero spregio che da sempre la scienza riserva alle patologie legate alla sessualità. Fino al 1990 circa, la sindrome da immunodeficienza acquisita continuò ad essere osservata come una patologia legata ai rapporti tra persone dello stesso sesso il cui sistema immunitario veniva colpito da un retrovirus denominato HIV che infettava le cellule favorendo l’insorgenza di svariate infezioni. Più tardi si scoprì che non esisteva categoria immune all’HIV e che non tutti i soggetti contagiati si ammalavano immediatamente. In alcuni casi il virus si faceva attivo anche a distanza di 15 anni dal contagio dando luogo alla formazione di sarcomi e linfomi. L’HIV è riuscito finora a farsi beffe dei tentativi di debellarlo, l’unico sviluppo positivo è stata la scoperta dei farmaci retrovirali che ne rallentano l’evolversi, tutto il resto è affidato alla prevenzione. Ma che accade in paesi come Botswana, Sud Africa, Kenya, Uganda ecc. con una ecatombe già in atto e una spesa sanitaria che non supera i 20-50 dollari pro-capite e dove l’accesso ai farmaci retrovirali è ancora un’utopia? La risposta è semplice: l’eventualità di essere curati resterà un’utopia. Donne e bambini saranno le prime vittime dal momento che ogni giorno nel continente africano nascono circa 1500 piccoli infetti e ogni anno ne muoiono circa 500.000 bambini ammalati di AIDS. Oltre agli attuali 12 milioni di orfani fra cinque anni se ne conteranno altrettanti e la situazione sarà grave soprattutto nelle zone dove le guerre avranno devastato il sistema sanitario accelerando il propagarsi dell’AIDS.

Adam Tanner, da 20 anni in prima linea con un’associazione che ha aiutato decine di ammalati di AIDS si dice frustrato dal comportamento del governo americano. Davanti ai dati infernali degli ultimi rapporti, le esortazioni di Bush all’astinenza come unico modo “sicuro” per evitare il contagio suonano come una beffa. Benché tre anni fa la sua amministrazione avesse allertato il resto del mondo impegnandosi a lottare per evitare altre morti, oggi si scopre che gli Stati Uniti non possiedono neppure un piano domestico per debellare l’AIDS. Il fratello minore del presidente, Jeb Bush, governatore della Florida, non ha invece commentato i 101.013 nuovi casi registrati nello stato durante il 2005. I tagli drastici ai fondi per la lotta all’AIDS non fanno prevedere nulla di buono neppure per la contea di Los Angeles, altro feudo repubblicano, dove nel 2005 si sono avuti 66.000 nuovi casi. Washington ha un solo centro dove sieropositivi, ammalati all’ultimo stadio, ex-drogati che sospettano di aver contratto il virus possono rivolgersi per trovare aiuto. Bill Bryant, giudice di Washington, ha definito “aberrante” la situazione degli sieropositivi in carcere, molti dei quali sviluppano la malattia nel corso della detenzione.

Lo conferma la storia di Richard Johnson che, per motivi che esulano dalla comprensione umana, è stato trasferito da una cella di detenzione normale in un reparto di massima di sicurezza, dove ha trascorso gli ultimi tormentati dieci giorni della sua esistenza. Johnson, ormai incontinente e prossimo alla morte, è morto legato ad una sedia dove le guardie l’avevano costretto a sedere. Margaret Moore, la direttrice del sistema penitenziario dello stato di Washington si è detta “molto sorpresa” per il trattamento riservato a Johnson. Ma la verità è che la crudeltà nei confronti dei detenuti affetti da malattie infettive è sistematica nelle galere degli Stati Uniti. Mancano le più elementari norme di rispetto per l’altro, mancano quei valori che lo stato dovrebbe insegnare alle guardie carcerarie prima di assegnarle alle sorveglianza dei detenuti. Detto altrimenti: è venuta a mancare ogni parvenza di quella che un tempo veniva definita “etica professionale”.

Tuttavia, seppure contrarre l’AIDS nelle galere americane è la cosa più facile del mondo, non è escluso che anche chi non ha vi ha mai messo piede scopra un giorno di aver contratto la malattia dopo essere venuto a contatto senza neppure sospettarlo con il sangue di un detenuto. In Gran Bretagna l’archivio che conteneva i documenti relativi agli ammalati di emofilia trasfusi con sangue infetto proveniente da un carcere dell’Arkansas sono stati volutamente distrutti, ma in altri paesi tutto è stato conservato scrupolosamente. La vicenda ebbe inizio a metà degli anni Ottanta, quando l’allora governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, autorizzò l’apertura di un laboratorio di analisi all’interno di uno dei penitenziari di stato. Nonostante i ripetuti avvertimenti della Food and Drugs Administration, il laboratorio iniziò a prelevare sangue dai detenuti per poi rivenderlo all’estero. E persino quando emerse la certezza che il sangue conteneva i virus che avrebbero inevitabilmente portato eventuali riceventi ad ammalarsi di epatite C, HIV e altre patologie,il commercio continuò. Reporter Associati, una testata di informazione online italiana oggi defunta, fu tra i primi a rivelare i particolari dello scandalo nel 2003.

Il governo americano aveva ammesso già nel 1995 una parte di responsabilità ma la storia del sangue infetto continuava ad essere uno dei segreti meglio custoditi della storia degli Stati Uniti. Il laboratorio, noto come HMA, realizzò profitti per miliardi di utili pur sapendo che migliaia di persone innocenti avrebbero pagato quel turpe commercio con la morte. In Arkansas il programma di lavoro nelle carceri non prevede alcun compenso per i detenuti che per un compenso di sette dollari a prelievo accettarono di vendere il proprio sangue.
Le sacche di plasma venivano rivendute ad un laboratorio canadese, il Continental Pharma Cryosan Ltd. Una volta scoperta la presenza di virus mortali, la Food and Drug Administration tentò di recuperare le sacche riuscendovi solo in parte. In Canada almeno novemila esseri umani moriranno per la criminale avidità dei personaggi coinvolti nel lucroso affare. All’epoca, il Department of Corrections era diretto da un intimo amico di Clinton che provvide a far sparire le prove dei prelievi. Non solo: la HMA riuscì persino a rinnovare il contratto e a compiere una nuova serie di prelievi, il tutto con il beneplacito anche di altre eminenti figure della scena politica dell’Arkansas come il senatore David Pryor. Nel colossale imbroglio venne coinvolto anche quel Richard Mays, già avvocato di Clinton e già sospettato di aver aggirato le leggi elettorali per sostenere l’ascesa politica del suo assistito.

Nel 1991, la direzione delle carceri dell’Arkansas dichiarò apertamente ad un reporter che la vendita di plasma sarebbe andato avanti fino a quando non fosse stata venduta l’ultima goccia. Solo nel 2005 un regista è riuscito a girare un documentario sulla vicenda per far conoscere la verità. Tutto quello che resta da dire è che sentir parlare di Bill Clinton e del suo impegno nella lotta contro l’AIDS nella giornata dedicata a questa terribile epidemia rischia di sembrare una farsa. In una conversazione filmata con una delle tante fidanzate si sente chiaramente Bill Clinton dire “Ma chi te lo fa fare a dire la verità ? Se la scoprono puoi sempre mentire”. Persino un vecchio mafioso come John Gotti rimase scandalizzato.....

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