di Tania Careddu

Parole d’ordine: controllo e condivisione delle responsabilità. Ma, a poco più di un anno dall’attuazione dell’approccio hotspot, rimangono solo l’ordine e il controllo. Della condivisione dei migranti e dei rifugiati politici, soltanto parole. Si, perché, pensato con l’obiettivo di distribuire i richiedenti asilo nei vari stati dell’Unione Europea, per poter valutare, solo successivamente, le loro domande d’asilo, l’approccio hotspot si è rivelato solo un rattoppo. Di più. Ha messo in luce l’incapacità dei leader europei, che lo hanno ideato, di pianificare e concordare la necessaria riforma del sistema d’asilo dell’Ue.

Se quei leader hanno, dunque, una responsabilità politica, le autorità italiane rispondono di quella diretta, intervenendo in maniera repressiva per prevenire spostamenti verso altri Paesi europei e aumentando, di conseguenza, il numero dei rimpatri. Spingendosi, per ottenere il maggior numero di identificazioni previste (e tanto auspicate dall’Unione europea), oltre i limiti ammissibili dal diritto internazionale dei diritti umani.

L’attuazione di misure coercitive, sotto la pressione delle istituzioni europee hanno sollecitato l’Italia ad “accelerare gli sforzi, anche sul piano legislativo, per fornire un quadro giuridico più solido” in tal senso, al fine di costringere le persone che non vogliono fornire le impronte digitali è diventata la regola, attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica.

E, però, trascurando che, secondo la legislazione italiana, le autorità di polizia sono autorizzate a prelevare con la forza “capelli o saliva” di persone soggette a indagine penale ma - sempre - tutelando “il rispetto della dignità personale del soggetto” e a seguito dell’autorizzazione del pubblico ministero. E che nessuna normativa fa riferimento al rilevamento forzato delle impronte digitali, se non una circolare del ministero dell’Interno che, secondo quanto si legge nel report "Hotspot Italia", redatto da Amnesty International, consentirebbe un uso proporzionato della forza (rivelatosi, il più delle volte, inutile di fronte alla non opposizione della maggior parte dei migranti).

E se un utilizzo limitato della forza potrebbe essere giustificato per controllare soggetti che agiscono aggressivamente contro le autorità di polizia, viola certamente il divieto internazionale di tortura e altri trattamenti disumani l’inflizione volontaria di sofferenza fisica, dolore, anche psicologico, per costringere le persone a obbedire all’ordine di un’autorità. Che nei punti di crisi (hotspot) italiani succede.

Screening (con l’obiettivo di separare i richiedenti asilo dai “migranti irregolari”) dello status di tutti gli esseri umani sbarcati nei porti italiani: viziati, anticipati e rapidi, avvenuti immediatamente dopo gli sbarchi e di fronte a soggetti non pienamente in grado di sostenere un dialogo informato (anche sul piano legale). Compromettendone l’esercizio del diritto di chiedere asilo: è, infatti, obbligo di legge e parte dei doveri dell’Italia sul piano internazionale fornire informazioni a chiunque possa voler fare richiesta di protezione internazionale.

Per agevolare il rilevamento delle impronte digitali e l’identificazione dei nuovi arrivati, spesso, sono sottoposti alla detenzione (arbitraria), nonostante l’assenza di una base legale, un ordine formale di trattenimento, la convalida di un giudice e la possibilità di contestarne la legittimità. E con la minaccia di non essere rilasciati fino ad avvenuta collaborazione.

Subiscono, inoltre, provvedimenti di espulsione immotivati che, sovente, al giudizio delle istituzioni europee risultano addirittura insufficienti. E pensare che il principio di non refoulement costituisce la pietra miliare del diritto dei rifugiati.

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