di Tania Careddu

Otto persone, da sole, possiedono quattrocentoventisei miliardi di dollari, tanto quanto la metà più povera dell’intera umanità. I mille e ottocentodieci miliardari della lista Forbes 2016, hanno seimila e cinquecento miliardi di dollari, di cui un terzo dei patrimoni è ereditato (e non frutto di duro lavoro) e il 43 per cento riconducibile a clientelismo, tanto quanto il 70 per cento meno abbiente della popolazione mondiale.

Per la natura stessa delle nostre economie e per i principi alla base dei nostri sistemi, la crescita va a vantaggio dei più ricchi, generando un mondo in cui, secondo quanto si legge nel rapporto “Un’economia per il 99 per cento”, redatto da Oxfam, l’1 per cento dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99 per cento. Producendo, oltre a un divario sempre più marcato fra abbienti e non, stagnazione dei salari e precarietà del lavoro.

Così, reddito e ricchezza, invece, di diffondersi a cascata verso il basso, vengono risucchiati dal vertice della piramide sociale: in primo luogo perché le grandi multinazionali (che, da sole, incassano più di centottanta Paesi più poveri messi insieme) per trovare profitti a breve termine a vantaggio degli azionisti, ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti.

Lo fanno utilizzando attivamente la rete globale dei paradisi fiscali, stratagemmi contabili, scappatoie legali o sfruttando accordi preferenziali e tregue fiscali concessi da vari Paesi. Inoltre, i redditi degli alti dirigenti sono, il più delle volte, pagati in azioni e crescono vertiginosamente mentre le retribuzioni dei lavoratori, sempre più spremuti fino al lavoro forzato, diminuiscono per effetto della compressione del costo del lavoro, con costi umani elevatissimi.

La compressione del costo del lavoro e dei costi di produzione, insieme alla minimizzazione delle imposte, consente alle grosse compagnie di destinare una quota sempre più consistente di profitti ai propri titolari; mentre, per lavoratori, c’è solo il vedersi ridurre il potere di contrattazione collettiva.

Potere che, invece, è nelle mani dei super ricchi che influenzano le definizioni di politiche volte a favorire l’accumulazione delle loro ricchezze e a mantenerle. Determinando la struttura delle nostre società, sempre più contraddistinte da disuguaglianza economica che è anche la peggiore minaccia alla stabilità sociale. Essa infatti causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza, le quali pregiudicano l’esito della lotta alla povertà, perché la risposta popolare all’ingiustizia esaspera le divisioni.

In Italia, nel 2016, la ricchezza dell’1 per cento più ricco - in possesso del 25 per cento di ricchezza nazionale netta - è oltre trenta volte la ricchezza del 30 per cento più povero degli abitanti del Belpaese. Quanto al reddito, tra il 1988 e il 2011, il 10 per cento più ricco ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. Poveri noi.

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