Non chiamatele “pensioni anticipate”. Con un ritardo notevole sulla tabella di marcia (dovevano partire lo scorso maggio), da quest’anno sono a disposizione dei contribuenti italiani due novità: l’anticipo pensionistico volontario (Ape) e la rendita integrativa temporanea anticipata (Rita). Si tratta di due strumenti concepiti per ammorbidire le rigidità della legge Fornero aumentando la flessibilità in uscita, ma la loro convenienza è quantomeno dubbia.

 

 

Perché si possa parlare di “pensione anticipata” deve essere previsto uno sconto sui requisiti per accedere all’assegno previdenziale, cioè una riduzione dell’età pensionabile o degli anni di contributi da accumulare. L’Ape volontario e la Rita non comportano nulla di tutto ciò. È vero, sono due forme di reddito-ponte pensate per accompagnare il lavoratore fino alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia. Ma a pagare non è lo Stato, bensì il contribuente stesso, che di fatto si auto-finanzia.

 

Dell’anticipo pensionistico su base volontaria - in sostanza, un prestito bancario assicurato da restituire in 20 anni con una decurtazione della pensione - abbiamo già parlato diffusamente in altri articoli. Stavolta vediamo come funziona la Rita e quali rischi corre chi la sceglie.

 

Innanzitutto, non è una possibilità aperta a tutti, ma solo a chi ha versato soldi in un fondo di previdenza complementare per almeno cinque anni. Funziona così: il contribuente incassa ogni mese una parte dei risparmi che aveva messo da parte per la pensione integrativa e vive con quei soldi finché non raggiunge l’età richiesta per la pensione vera e propria (al momento l’asticella è a 66 anni e 7 mesi, ma dal 2019 salirà per tutti a 67 anni).

 

Diversamente da quanto accade con l’Ape volontario, le persone che incassano la Rita non possono continuare a lavorare. Per chi è disoccupato da meno di due anni, la rendita può durare al massimo cinque anni (perciò l’età minima richiesta è di 61 anni e 7 mesi, che saliranno a 62 dal primo gennaio 2019). Per chi invece non lavora da più di due anni, la Rita può durare fino a un decennio (di conseguenza l’età minima scende a 56 anni e 7 mesi, che diventeranno 57 dal 2019).

 

L’unico vero vantaggio è sul fronte fiscale. Alla Rita si applica infatti una ritenuta agevolata del 15%, che scende di un ulteriore 0,30% per ogni anno di partecipazione al fondo pensione oltre il 15esimo, fino a un’aliquota minima del 9%.

 

Il punto dolente riguarda i costi, che non sono fissi. Il contribuente può scegliere se utilizzare tutto o parte del capitale accumulato con la previdenza integrativa a seconda di quanto vuole ricevere ogni mese, ma chi aspira a un assegno uguale o simile all’ultimo stipendio sarà costretto a spendere molto. Secondo la società di consulenza Aon Hewitt, in media servono otto anni di versamenti al fondo previdenziale per pagarsi un anno di Rita. Il conto sale a 16 e 22 anni di iscrizione per finanziare anticipi di due e tre anni.

 

Il rischio è evidente: consumare facilmente i risparmi accumulati con la previdenza integrativa e in questo modo ridurre di parecchio (o addirittura azzerare) la pensione complementare a cui si avrà diritto una volta maturati i requisiti per il trattamento di vecchiaia. In altri termini, la Rita contrasta con le finalità della previdenza integrativa, il cui scopo è appunto integrare la pensione pubblica. Che spesso da sola non basta ad arrivare alla fine del mese.

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