Disoccupazione, denatalità ai minimi storici, segregazione orizzontale e verticale fortemente radicate nel mondo del lavoro, asimmetria tra madri e padri e mancanza di conciliazione tra vita privata e quella lavorativa. E’ l’Italia delle mamme nel 2018. Poco diversa dagli anni precedenti per l’inattuazione di un radicale mutamento culturale necessario per cambiare la complessa realtà in cui vivono.

 

 

 

Finora le politiche per la genitorialità e il welfare si sono caratterizzate per una certa “estemporaneità e occasionalità, quasi sempre al di fuori di una logica programmatoria di medio-lungo termine”, si legge nel rapporto Le equilibriste, redatto da Save the children.

 

Urge una crescita sociale del Paese che parta da un investimento nella scuola e nei servizi educativi della prima infanzia, formando a una visione più moderna e paritaria della condizione femminile (e di quella materna), e proceda con politiche immediate e strutturali, non in un’ottica di sostegno ma di diritto.

 

Gli ultimi interventi normativi a sostegno (?) della maternità sono stati rivolti a incentivare la natalità: dai bonus bebè, riconfermati nella legge di Bilancio 2018, ai bonus ‘mammedomani’, dai voucher baby sitter ai bonus asilo. Misure una tantum che hanno un impatto pirotecnico ma limitato e rispondono ai bisogni emergenziali individuali e non collettivi. Tra gli strumenti certamente più utili per la conciliazione, quali i congedi parentali, ancora troppo poco è stato fatto in termini di incentivazione dei padri nel ruolo di cura e del rafforzamento della loro tutela giuridica, aggravando la già sproporzionata condivisione della responsabilità genitoriale.

 

Buone prospettive, invece, si sono aperte sul fronte del welfare aziendale che, sebbene ancora circoscritto, sembrerebbe in tendenziale attivazione: flessibilità nell’organizzazione del lavoro, misure a sostegno della genitorialità e altre aumentate dell’8 per cento rispetto al 2017 e un raddoppio, nell’ultimo biennio, delle imprese che le hanno attivate.

 

Un plauso a queste iniziative è d’obbligo ma non si può trascurare la porzione (maggioritaria) delle madri che lavorano in condizioni precarie con contratti di collaborazione di vario genere e quelle per le quali la partita Iva “non è che una forma di riduzione delle tutele lavorative”, si legge nel dossier.

 

E poi, sono tantissime le mamme per le quali, a seguito della maternità, il mondo del lavoro rimane inaccessibile o sommerso o quelle che, per lavoro, si trovano a dover scegliere se vivere con i propri figli o rimandarli nel Paese d’origine. E sono duecentosettantamila. Una su sette. Soprattutto ucraine. Stando alle stime dell’Ismu, il 60 per cento dei figli delle mamme immigrate in Italia – che sono un milione e novecentomila – vive in Ucraina, il 30 per cento nelle Filippine e il 17 per cento in Nigeria mentre si abbassano di molto le percentuali per le mamme marocchine, albanesi, rumene, cinesi ed egiziane.

 

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