Tra le ville kitsch delle famiglie di rom abruzzesi a Roma e i nylon di tende improvvisate di rom bulgari a Foggia, ci sono altre venti etnie che vivono in una condizione di segregazione abitativa, funestate dalla relegazione in ghetti etnici - più comunemente noti come campi nomadi - e da azioni di sgombero forzato.

 

Stando ai dati riportati nel rapporto "I margini del margine", redatto da Associazione 21 Luglio, il 60 per cento di esse, pari a quindicimila unità, vive in centoventisette insediamenti formali distribuiti in settantaquattro comuni italiani; il restante, compreso all’interno di una forbice stimata tra le ottomila e seicento e le diecimila e seicento persone, vive, invece, in insediamenti informali che, bersagliati da ripetute operazioni di sgombero - duecento nel 2018 - finiscono per ridursi a microinsediamenti abitati da due o tre famiglie. Sono trecento a Roma e centotrenta nell’area metropolitana di Milano.

 

 

Sono progettati, costruiti e gestiti dalle autorità pubbliche con condizioni igienico-sanitarie al di sotto degli standard internazionali, oppure frutto di insediamenti spontanei dove di acqua corrente, riscaldamento e illuminazione non c’è nemmeno l’ombra; sono sistemazioni abitative monoetniche. In realtà, le comunità rom presenti in Italia sono caratterizzate da una forte eterogeneità sociale, da un’ampia varietà linguistica-dialettale e da tradizioni molto differenti.

 

Anche nel 2018, per il perpetuarsi di politiche segregative volte ad affermare un sistema abitativo parallelo per le comunità rom e nonostante la Strategia Nazionale per l’Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, non si sono registrati risultati positivi per un cambio di sistema. Ma “la segregazione su base etnica e la situazione di emergenza abitativa in cui versano gli abitanti delle baraccopoli - si legge nel Rapporto - provocano ricadute a cascata nella mancata tutela degli altri diritti fondamentali”.

 

Tanto più che il paradigma utilizzato, ancora nel 2018, è la chiusura del campo che concretizza la fine temporale e spaziale di quella (precaria) soluzione abitativa senza contemplare alternative papabili e non, certamente, il superamento del campo che, come vorrebbe la Strategia, richiede una “programmazione di interventi (…) nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone coinvolte nel percorso di inserimento sociale”.

 

Nel 2018, ci sono stati alcuni orientamenti virtuosi da parte di alcune amministrazioni comunali nel senso del superamento delle baraccopoli: Olbia e Sassari hanno deliberato a favore del superamento verso l’inclusione; Reggio Calabria ha preso in carico gli abitanti, collocandoli in immobili; Cosenza ha chiuso le baraccopoli, elargendo finanziamenti; Sesto Fiorentino ha deliberato su progettualità personalizzate e Moncalieri le ha già applicate.

 

Tante altre amministrazioni, invece, hanno proceduto con la pratica degli sgomberi forzati – novanta del Nord Italia, ottanta nel Centro e venticinque nel Sud -, limitandosi a spostare la vulnerabilità sociale e abitativa da un luogo a un altro: ciò “rappresenta la diretta conseguenza di scelte politiche costose, prive di lungimiranza, non rispettose dei diritti fondamentali”, si legge nel Rapporto.

 

Che ha anche analizzato il livello di antigitanismo presente nella società italiana: centoventicinque episodi di discorsi di odio, trentotto di una certa gravità, con elevata concentrazione nel Lazio con quarantacinque casi, in Lombardia con ventisette, in Piemonte con dieci, in Veneto e in Campania con nove, in Emilia Romagna con sette e in Toscana con sei.

 

L’Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori (OSCAD) ha rilevato che, nell’anno passato, ci sono state sei segnalazioni riguardanti episodi discriminatori nei confronti di persone rom: un caso in Toscana, nel Lazio, in Campania e in Sicilia, due in Sardegna.

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