Ci vogliamo provare a fare un abbozzo di (umile) analisi su razzismo e stadi? Ok, proviamoci. Senza particolari pretese socio-antropologiche né di fornire spiegazioni rassicuranti su un “fenomeno” in evidente espansione, ma con la chiara intenzione di dare un contributo a smascherare, per lo meno, il velo di ipocrisia che avvolge questo reiterata vergogna. Che servirebbe, forse, anche a trovare una soluzione, dopo innumerevoli episodi e altrettanta inutile indignazione.

Solo per attenerci alla cronaca più recente, riportiamo quanto accaduto a due calciatori, insultati a fine partita dagli spalti, non più gremiti ma ancora pieni di idiozia. Kalidou Koulibaly, perno insostituibile della difesa del Napoli, e Dusan Vlahovic, giovanissimo goleador della Fiorentina, venivano pesantemente fatti oggetto di ingiurie e cori offensivi: “negro di merda, scimmia”, “sei uno zingaro”.

 

Il primo ha risposto immediatamente invitando lo sparuto gruppo a farsi pure avanti, mentre il giocatore croato ha contenuto a stento le lacrime. Entrambi si apprestavano a rilasciare le rituali interviste di fine match, quindi tutto inequivocabilmente documentato. Il tema centrale, ovviamente, non è quale sia stata la loro reazione. E neanche individuare e perseguire gli autori di tale eroica azione, che a rigor di Codice Penale, sarebbe un reato. Dunque, affare delle autorità giudiziarie.

Un aspetto non certo secondario, sul quale torneremo più avanti. Ciò che ora riteniamo invece prioritario è il razzismo e il neofascismo dilaganti nel tessuto sociale, in tutti gli strati, e conseguentemente negli stadi. Anzi, questi ultimi da molti, troppi anni ne anticipano pulsioni e derive, con molte, troppe curve trasformate in campi di addestramento per la destra più eversiva. Con il pretesto della rivalità, della inarrestabile adrenalina prodotta dalla sfida, si arriva a giustificare l’odio, che sfocia nella gradinata avversa e si riversa sul campo di gioco. Per il colore della pelle, per la etnia, finanche per i gusti sessuali, nel malaugurato caso diventino di dominio pubblico.

Il degrado esibito dalla stragrande maggioranza della classe dirigente di questo paese, che rilancia e alimenta le degenerazioni di una società sempre più diseguale e sempre più omologata dalla panacea digitale, si impossessa così in modo quasi naturale della parte vulnerabile del tifo. E della passione, autentica e sincera nella sua genesi, del tifoso. Costretto a inseguire le mille evoluzioni del calcio moderno, declinato sulle esigenze della Borsa piuttosto che di uno sport, considerato a ragione il più popolare del mondo. Cosa realmente significhi però “popolare”, al momento rimane un gigantesco abbaglio. Se non, spesso, una vera e propria truffa. Perpetrata sull’irresistibile fascino del “gioco più bello del mondo”.

La popolarità e la bellezza, caratteristiche per altro indiscutibili, non procedono sempre e comunque su binari paralleli, trovando così a volte dei punti di collisione disastrosi e inesorabili, seppure contenuti nella incalzante necessità di non interrompere lo spettacolo. Uno di questi è senza dubbio la Finanza, che ha sperimentato con successo l’assimilazione delle risorse principali e più redditizie del football, alle rigide regole della dottrina neoliberista. Un altro, inquietantemente concreto, è rappresentato dalle frequenti e deliberate manifestazioni di razzismo.

Lo strapotere mediatico dei broadcast televisivi che si sono aggiudicati l’esclusiva streaming della gara, non contempla né la colpa né la responsabilità di contenuti o comportamenti esplicitamente razzisti palesati durante il suo svolgimento, e ci mancherebbe. Sostengono, fosse anche solo per un proprio tornaconto economico o per basiche operazioni di marketing sociale, campagne ufficiali di sensibilizzazione sulla volontà di estirpare le velenose radici del razzismo. Tuttavia, la imponente migrazione della quintessenza del Calcio verso gli accoglienti lidi delle piattaforme digitali dell’intrattenimento, da un lato, e verso il core business della imprenditorialità sovranazionale che nulla ha a che vedere con la competizione sportiva, dall’altro, riproducono la logica predatoria del modello capitalistico di produzione. D’altronde, non è un caso se Socrates, il grandissimo giocatore brasiliano che ideò la democracia corinthiana e che accettò di trasferirsi alla Fiorentina per studiare Gramsci, affermava che “non c’è niente di più marxista del calcio”. Come dargli torto, alla luce dello scivolamento della intera industria del football verso una ristrutturazione neoliberista.

Avvolgiamo il nastro di qualche mese, per ripescare le dichiarazioni di un calciatore della Nazionale italiana, alla vigilia di una partita molto importante: Quando capiterà qualche richiesta dalle altre squadre ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra. Le parole di Giorgio Chiellini, capitano della spedizione azzurra agli Europei per cui voce autorevole di tutto il team, in riferimento al gesto di solidarietà con il movimento Black Lives Matter espresso da quasi tutte le altre compagini, rasentano la farneticazione. O peggio, segnalano la terribile voragine culturale di un intero ambiente.

La trionfale avanzata che ha portato alla conquista del più ambito trofeo continentale, ha fatto dimenticare questo imbarazzante episodio. I successivi tentativi di rimediare a questa figura meschina, non hanno fatto altro che giustificare l’antico adagio della toppa che è peggio del buco. Non già infatti, è opportuno e sacrosanto dimostrare solidarietà a un movimento antirazzista, quanto piuttosto nella eventualità e su richiesta alle squadre che la sollecitino. Tutto ciò, al di là delle disarmanti giravolte linguistiche, sottolinea la preoccupante arretratezza su una emergenza imprescindibile come il razzismo. Nello specifico, da parte dei protagonisti di una competizione sportiva che deborda in maniera naturale nel costume e nella quotidianità. A tutte le latitudini del pianeta. Tranne alcune ammirevoli eccezioni, la maggioranza dei calciatori professionisti rinuncia a lanciare un messaggio forte e inequivocabile sulla presenza del razzismo sul campo come sulle tribune. E siamo nel 2021, non all’inizio del secolo scorso o nel sud degli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta, né tanto meno nel Sudafrica dell’apartheid.

A volte però, si ha la sensazione che tutto questo non sia mai accaduto. L’ex difensore di Parma Juventus e della Nazionale francese Lilian Thuram, da molto prima che terminasse la sua carriera professionale dedica libri e impegno alla lotta contro il razzismo, nel calcio e nello sport in generale. Le sue parole non sono equivoche e non lasciano spazio a interpretazioni o fraintendimenti, piuttosto suscitano reazioni scomposte a coloro i quali si sentano realmente colpiti: C’è molta ipocrisia e non mi stupisce, perché la maggior parte dei bianchi se ne frega del razzismo. Secondo loro questo è un tema che tocca solo le persone che lo subiscono e basta. Il razzismo è un problema dei bianchi, questa è la realtà. (…) I giocatori bianchi non devono stare indifferenti e zitti nella lotta contro il razzismo.” Non occorre mettere in evidenza l’abisso che separa la posizione di Thuram da quella di Chiellini. La discriminazione razziale, l’apologia di fascismo, l’antisemitismo e il sessismo, non sono opinioni; sono reati e violano apertamente la carta costituzionale.

Come dicevamo in precedenza, non ci sarebbe da tergiversare al riguardo, poiché la Costituzione parla chiaro: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Liquidare la questione alla solita solfa dei quattro imbecilli, è il ridimensionamento di un problema che ne allontana la soluzione, oltre che deprimente e falsamente autoassolutorio. Altrettanto inefficace, abbandonarlo al solo iter giudiziario, privandolo degli elementi fondamentali di una qualsiasi forma di Civiltà. Finendo per neutralizzare tutte quelle etichette altisonanti presenti sulle maglie dei nostri amati club, che finiscono per confondersi con la selva di sponsor che circondano, talvolta fino a oscurarlo, lo stemma delle origini. Respect e No Room for Racism siano un monito costante alle nostre coscienze e non vuoti slogan. Solo così potremo continuare a sventolare le nostre bandiere senza farci dividere dai colori.

  

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy