di Cinzia Frassi

Piergiorgio Welby si era rivolto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quindi al Tribunale di Roma, senza risultato. Da troppi anni viveva solo grazie al respiratore automatico. La notte del 20 dicembre 2006 il medico anestesista Mario Riccio aveva staccato la spina, ottemperando alla richiesta di Welby di interruzione delle terapie. Il medico che ha ascoltato e attuato la volontà di sospendere le cure di Welby rischia da 6 a 15 anni di carcere per omicidio del consenziente. In base a quanto previsto dall’art. 579 del codice penale chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la pena ricordata. Il giudice per le indagini preliminari Renato Laviola ha rigettato la richiesta di archiviazione presentata il 6 marzo scorso per il dottor Riccio e ha restituito il fascicolo al pm, disponendo l’iscrizione nel registro degli indagati del medico. Si resta ora in attesa della discussione del caso in camera di consiglio e della conseguente decisione del gip che potrà decidere di archiviare la posizione di Riccio, ordinare che il pm esegua ulteriori indagini sul caso oppure chiedere che sia formalizzata l’imputazione per l’ipotesi di reato di omicidio del consenziente. Il caso Welby è quindi tutt’altro che chiuso. Non dimentichiamo che il 1 febbraio scorso l’Ordine dei Medici di Cremona si era espresso in merito al comportamento professionale di Riccio giudicando l’atto di staccare la spina del respiratore, ottemperando alla richiesta di Welby di sospensione delle cure, un atto ineccepibile dal punto di vista deontologico. Inoltre, con la mancata archiviazione da parte del gip Renato Laviola viene messa in discussione la tesi della procura di Roma in cui non solo si giudicava non censurabile in comportamento del medico, ma si sottolineava che “l’interruzione della ventilazione meccanica ha realizzato la volontà di Welby in esplicazione di un diritto a lui spettante che trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall’ordinamento italiano ribadito inoltre in fonte di grado secondario quale in codice di deontologia medica”. La procura tuttavia non cambia idea e ribadisce la sua posizione.

Dal canto suo il Dr. Riccio non si pente di aver attuato la volontà di sospendere la terapia di Piergiorgio Welby e dice “sono mesi che vivo in una certa tensione ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto”.

La battaglia di Welby aveva da subito fatto parlare di accanimento terapeutico ma sembra che ci troviamo di fronte ad un caso di accanimento giudiziario e politico. Perché è molto diverso sospendere una terapia che il paziente non accetta più esercitando un diritto costituzionalmente garantito, e il “cagionare la morte”. Allo stesso modo, cosa diversa è decidere di sospendere le cure e identificare gli elementi che rendono evidente l’accanimento terapeutico sulla pelle del malato e rappresentare la situazione come un “pericoloso” caso di eutanasia. Il confine che distingue tali situazioni non può apparire tanto offuscato come invece hanno dimostrato le polemiche e le speculazioni attorno a questo caso disperato e come continuano a dimostrare i nulla di fatto in casi analoghi. Se non la politica e il suo essere scivolata in una sorta di chermes grottesca e medievale cosa può rendere tanto opinabile un diritto del paziente?

E’ quindi ancora più urgente, oltre che garantire le necessarie cure palliative che oggi non sono ancora a disposizione di tutti i malati, approdare al più presto ad una legge in tema di testamento biologico cioè in merito al documento scritto finalizzato a garantire la volontà in materia di trattamento medico. A rilevare l’urgenza è proprio il caso Welby e l’evidente difficoltà tanto nelle aule giudiziarie quanto tra i banchi della politica a garantire il rispetto di diritti già esistenti.
In questi casi accade che si scivoli nel baratro delle polemiche per nutrire proprio quella necessità legislativa e il conseguente sollievo che pare portare alle diatribe su questioni bollenti di cui nessuno vuole portare il peso del rischio politico del consenso. Intanto, tra i nodi della discussione in Commissione Sanità al Senato per trovare un testo condiviso sul testamento biologico, si parla di “dichiarazione anticipata di volontà” e della sua obbligatorietà. La dichiarazione si configura come nient’altro che una indicazione delle volontà del cittadino in fatto di cure e terapie nel caso in cui non fosse in futuro più in grado di esprimersi autonomamente. Se rischiamo di dover parlare nel caso Welby di omicidio del consenziente, cosa impedisce di definire il testamento biologico o “dichiarazione anticipata di volontà” come “suicidio”? E’ su questo che verte, oggi, la battaglia politica che si sta consumando al Senato proprio sul testamento biologico e sul quale è intervenuto direttamente il Capo dello Stato chiedendo rapidità di decisione alle forze politiche. Alla luce di questo, non possiamo che leggere l’azione del gip di Roma come un messaggio politico ispirato da chi, ancora una volta, vuole far soggiacere la libertà di scelta dei cittadini a qualcosa di diverso dallo stato di diritto.


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