Gaza, gli scogli della tregua

di Michele Paris

L’attitudine dei vertici di Hamas nei confronti dell’ultima proposta di tregua avanzata da Israele sembra essere improntata a un’estrema cautela. Il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza ha fatto sapere nelle scorse ore che restano ancora elementi ambigui nella bozza sottoposta con la mediazione egiziana, anche se le trattative sono tuttora in corso e il documento potrebbe...
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Ecuador: la "valanga" referendaria

di Juan J.Paz-y-Miño Cepeda

Il 21 aprile (2024), su iniziativa del governo di Daniel Noboa, presidente dell'Ecuador, si è svolta una consultazione e un referendum su 11 quesiti, tre dei quali riguardavano il ruolo delle forze armate nella lotta contro la delinquenza e la criminalità organizzata, a sostegno della polizia; altri tre sull'estradizione degli ecuadoriani, sull'aumento delle pene e sulla scontata esecuzione di pene piene per i condannati; altri tre sulle magistrature specializzate in materia costituzionale, sul reato di porto d'armi e sul fatto che lo Stato diventerà proprietario dei beni sequestrati di origine illecita. Le altre due erano sull'arbitrato internazionale e un'altra per consentire l'introduzione del lavoro a ore e a tempo determinato....
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di Mario Lombardo

In seguito alla diffusione della notizia che il gigante della tecnologia Apple non ha praticamente pagato alcuna tassa sulle proprie entrate negli ultimi anni, l’amministratore delegato della compagnia con sede a Cupertino, Tim Cook, è stato chiamato a testimoniare questa settimana di fronte ad una commissione del Congresso americano, teoricamente per spiegare il comportamento della propria azienda.

L’apparizione, oltre a mostrare il consueto servilismo della classe politica USA verso gli esponenti dell’aristocrazia economica e finanziaria, si è risolta però in una difesa dell’operato di Apple e in un aperto invito ad abbassare ulteriormente il carico fiscale delle corporation.

Nella giornata di martedì, una sotto-commissione permanente del Senato per le investigazioni aveva presentato i risultati di un proprio rapporto, nel quale era emerso come Apple tra il 2009 e il 2011 ha pagato la miseria di 21 milioni di dollari su tutto il proprio fatturato registrato al di fuori degli Stati Uniti, traducendosi in un’aliquota che non arriva nemmeno allo 0,1%.

La più grande azienda del pianeta per capitalizzazione di mercato ha potuto evadere impunemente le tasse grazie ad una serie di più o meno complesse manovre che hanno convogliato i profitti su scala planetaria verso proprie filiali in paradisi fiscali. In particolare, la creazione di Apple Operations International in Irlanda avrebbe permesso alla corporation fondata da Steve Jobs di pagare un’aliquota nominale pari al 2% su quasi i due terzi del suo fatturato complessivo, nonostante le operazioni in questo paese siano ammontate, per l’anno 2011, a meno dell’1% di quelle totali.

Secondo l’indagine del Senato, ciò sarebbe stato possibile grazie ad un accordo speciale concordato tra Apple e le autorità fiscali dell’Irlanda, dove peraltro l’aliquota ufficiale per le corporation – 12,5% – risulta già una delle più basse in assoluto. Questa ipotesi di un’intesa ad hoc per Apple è stata però smentita martedì dal vice primo ministro di Dublino, Eamon Gilmore.

Negli ultimi anni, poi, Apple Operations International non avrebbe nemmeno presentato le pratiche per il pagamento delle tasse per la suddetta quota di fatturato, sfruttando la diversa legislazione fiscale di Stati Uniti e Irlanda. Nel primo paese, infatti, la domiciliazione fiscale dipende dalla sede legale dell’azienda in questione (Irlanda), mentre nel secondo dal luogo in cui viene gestita (USA). Grazie a questo cavillo, Apple avrebbe evitato di pagare un solo dollaro di tasse su qualcosa come 74 miliardi di dollari, così che la compagnia tra il 2009 e il 2012 ha potuto dichiarare ben 30 miliardi di profitti.

Se un simile comportamento è tutt’altro che un’eccezione nel panorama del business a stelle e strisce, per stessa ammissione degli investigatori che hanno condotto la ricerca per la commissione del Senato, Apple è stata la prima grande azienda statunitense a sottrarre la gran parte del proprio fatturato all’autorità fiscale di qualsiasi paese.

Ciononostante, Tim Cook è apparso tutt’altro che pentito o mortificato nella sua audizione di martedì, affermando, non senza ragione, che Apple ha pagato regolarmente tutte le tasse dovute senza violare alcuna legge. Nessuno dei senatori della commissione ha potuto smentire il CEO di Apple, dal momento che quest’ultima ha semplicemente utilizzato un sistema fiscale costruito appositamente per consentire alle grandi aziende di evadere legalmente le tasse.

Cook ha inoltre ricordato come i vertici di Apple abbiano “raccomandato all’amministrazione Obama e a molti membri del Congresso di adoperarsi per semplificare drasticamente il sistema di tassazione delle corporation americane”, lasciando intendere che gli espedienti messi in atto per ridurre il carico fiscale tramite filiali estere potrebbero essere abbandonati se gli Stati Uniti dovessero applicare aliquote irrisorie come quelle in vigore in Irlanda o in altri paradisi fiscali.

Da parte dei senatori, invece, durante l’audizione non c’è stato altro che deferenza nei confronti di Cook, con il presidente della commissione, il democratico Carl Levin, e altri suoi colleghi che hanno elogiato a lungo il management di Apple, evitando accuratamente di suggerire misure o iniziative per far pagare alla compagnia la giusta quota di tasse negli Stati Uniti o per impedire la continua colossale truffa legalizzata ai danni del governo e dei normali contribuenti americani.

Le manovre messe in atto per annullare virtualmente il carico fiscale sono peraltro la regola per le corporation americane, e non solo. Pochi mesi fa, per le stesse ragioni erano finiti sotto indagine alcuni dei concorrenti di Apple, come Microsoft e HP, mentre, secondo quanto riportato dall’organizzazione Citizens for Tax Justice, tra il 2008 e il 2010 una trentina di corporation - tra cui Boeing, General Electric, Mattel e Verizon - non hanno pagato un solo dollaro di tasse a fronte di profitti complessivi pari a 205 miliardi di dollari. Se queste compagnie avessero pagato in pieno l’aliquota prevista negli USA - pari al 35% - in tre anni il governo federale avrebbe incassato oltre 78 miliardi di dollari.

Il danno causato da questo gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche dell’élite economica e finanziaria è stato calcolato dalla stessa commissione del Senato, la quale ha messo in luce il collegamento tra l’impennata del debito pubblico americano e il crollo delle tasse effettivamente pagate dalle corporation, “producendo un fardello sempre più pesante per i singoli contribuenti e le generazioni future”.

Nel 1952, ad esempio, le tasse pagate dalle corporation negli Stati Uniti costituivano più del 32% di tutto il gettito fiscale federale, mentre oggi tale quota è crollata al di sotto del 9%.

Tutto ciò si è concretizzato, per l’anno 2011, in un conto fiscale di 1.100 miliardi di dollari pagato dai contribuenti individuali e di appena 181 miliardi dalle corporation. Simili dati risultano ancora più sconcertanti se si considera che, secondo alcune ricerche, il fatturato registrato all’estero dalle grandi aziende americane per l’anno 2012 ha sfiorato i duemila miliardi di dollari, mentre i profitti non tassabili negli USA sono aumentati del 70% negli ultimi cinque anni.

La stessa Apple vanta oggi una liquidità pari a 145 miliardi di dollari, di cui oltre 100 localizzabili al di fuori dei confini americani e quindi non soggetti al sistema fiscale degli Stati Uniti.

In questo scenario, la classe politica americana, come quella degli altri paesi, si limita a lanciare vuoti appelli ad una riforma globale del sistema di tassazione delle grandi compagnie multinazionali, mentre i giganteschi profitti già sottratti al fisco e alla grande maggioranza della popolazione rimangono al di fuori di qualsiasi ipotesi di confisca o, quanto meno, di un’equa tassazione.

In compenso, i politici di tutti gli schieramenti continuano a chiedere durissimi tagli alla spesa pubblica, sostenendo che non esistono più le risorse per programmi vitali che potrebbero essere invece ampiamente finanziati con la vasta ricchezza scandalosamente concentrata nelle mani di una ristretta oligarchia al vertice della piramide sociale.

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