Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Paola Vallatta

Un martello fa eco all’altro battendo sulla latta al mercato Dantokpa di Cotonou, il più grande mercato del Benin, crocevia internazionale d’Africa occidentale. È la zona dei fabbri: il ritmo di battuta è sostenuto, il rumore assordante. Tra le lamiere, le assi e i pezzi di cartone che formano la struttura del mercato, siedono uomini, ragazzi e pure bambini. Questi ultimi si alzano presto, mangiano poco e spesso nel mercato dormono pure. Vanno a cercare pezzi di lamiera e metalli nelle discariche e li portano al mastro-padrone, poi cominciano con il battere e il levare.

I piccoli vengono da villaggi a 10, 20, 50 chilometri da Cotonou e rimangono a lungo, fino a quando non hanno 18-20 anni. Secondo Justine Michayi, direttore esecutivo dell’Afamies, Association des Femmes Amies, piccola Ong legata a Emmaus che opera anche nel mercato di Cotonou, i ragazzini lavoratori di Dantokpa sono circa 400. Mastro fabbro va a cercarli nei villaggi più poveri e ipnotizza i genitori con il miraggio di un radioso futuro a Cotonou, terra promessa dove potranno imparare un mestiere, in seguito guadagnare molto denaro e infine contribuire al benessere di tutta la famiglia.

Mettere il ragazzo in apprendistato costa meno che mandarlo a scuola, così il mastro si fa dare una piccola somma e porta con sé il bambino. In Benin questi cuccioli d’uomo inviati alla ricerca di un avvenire migliore presso un artigiano o presso famiglie più benestanti di quella d’origine vengono chiamati bambini “prestati”, ma questa definizione pudica maschera in effetti una sorta di schiavitù.

La sorte del ragazzino varia a seconda del grado di umanità relativa del fabbro-padrone: molti vengono maltrattati, picchiati, affamati. I genitori non nutrono sospetti: di tanto in tanto il datore di lavoro invia piccoli pacchi al villaggio. Qualche scatola di riso, alcuni barattoli di conserva, un po’ di sale sono sufficienti per tranquillizzare i genitori: se il figlio manda questa roba significa che tutto procede nel migliore dei modi possibili. La realtà che vivono i piccoli, invece, è fatta solo di lavoro, spesso pure di stenti, sette giorni su sette. Per anni, fino a quando non si raggiunge la maggiore età, in genere. E, quando accade, molti si scoprono sordi: l’incessante frastuono dei colpi menati ai metalli, nel quale sono vissuti a lungo, ha rovinato il loro udito. Per sempre.

La signora Michayi e la sua associazione hanno iniziato a interessarsi a questo traffico di bambini nel 2003. All’inizio non si occupavano dei ragazzi del mercato, ma delle bambine impiegate come domestiche nelle famiglie benestanti, certamente sfruttate, quasi sempre maltrattate e, spesso, violentate dai padroni. Un fenomeno che riguardava 100 mila ragazzine nel solo Benin (le cifre fornite dall’Unicef contano complessivamente 200 mila bambini schiavi in Benin); piccole che venivano talvolta portate anche in altri paesi, Ghana o Costa d’Avorio, per esempio: tutte le condizioni perché si potesse parlare di schiavitù, lungo viaggio compreso, si trovavano così riunite.

Grazie anche all’interessamento dell’Afamies, la Brigata per la protezione dei minori è dovuta intervenire e, attualmente, la tratta delle bimbe è ufficialmente debellata. “Se continua, ed è probabile che continui”, dice la signora Michayi, “riguarda certamente molte meno ragazze ed è, sostanzialmente, clandestina”. Anche se molte famiglie, almeno a Cotonou, continuano a impiegare le bambine come domestiche.

È proprio cominciando a occuparsi di minori che Justine Michayi ha scoperto l’esistenza dei piccoli schiavi del mercato di Dantokpa. Per loro è riuscita a trovare un minuscolo locale nel cuore dell’area dove si trovano i fabbri, nel quale accogliere i bambini. Qui possono raccontare la loro storia, vengono informati dei diritti dell’infanzia e, due volte la settimana, il martedì e il giovedì, per due ore hanno lezione di francese.

Naturalmente far lavorare i minori sotto i 14 anni è proibito dalla legge anche in Benin, ma, per qualche misterioso motivo, questi piccoli fabbri non paiono evidentemente abbastanza sfruttati perché la Brigata per la protezione dei minori intervenga. Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc (i nomi sono stati cambiati nell’interesse dei bambini stessi) sanno più o meno scrivere i numeri e il loro nome e riescono a leggere le semplici frasi scritte in stampatello sulla lavagna (una parte di parete verniciata di nero). Il più piccolo, Robert, ha otto anni e lavora al mercato da uno e mezzo. Scrive i numeri a rovescio e non riesce a concentrarsi, ma poi svela il perché: ha fame, non ha ancora mangiato nulla. E una volta che si è riempito la pancia va molto meglio e sorride più facilmente. Marc, il maggiore del piccolo gruppo, ha 15 anni e lavora a Dantokpa da otto. Sembra più sereno e sicuro di sé e ci fa da guida nell’esplorazione della zona.

Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc fanno parte dei 50 ragazzini (su 400) che hanno accesso alle attività dell’associazione. “Quelli che vengono da noi sono una cinquantina”, conferma Madame Michayi, “ma, attenzione, non sono sempre necessariamente gli stessi 50”. Poi conclude: “scuola a parte, cerchiamo di aiutarli anche sotto il profilo sanitario. Se si feriscono, e accade, non si curano a dovere, anche perché non hanno alcuna protezione malattia. Così cerchiamo fondi per pagare loro un’assicurazione: bastano pochi euro all’anno (per la precisione 500 franchi CFA, ovvero 0,75 centesimi, al mese), ma, spesso, non abbiamo neppure quelli”.

C'è anche una piccola struttura benino-italiana, riconosciuta come Ong dallo stato beninese nel maggio 2008, che si occupa di bambini "prestati". Ha sede a Ouidah, a 42 km. da Cotonou, alla Maison de la Joie, ed è nata per iniziativa di Flavio Nadiani, di sua moglie Thérèse, degli amici Justine e Christian. Lì vivono attualmente circa 30 ragazzi (dai tre ai 20 anni) e cinque donne, che gestiscono un piccolo ristorante. La “Casa della Gioia” è come una grande famiglia: Justine e Christian hanno cinque figli, che coabitano con gli altri bambini. Alcuni di loro sono orfani, altri abbandonati; qualcuno ha uno o più parenti (ci sono quattro sorelline che vivono alla Maison insieme a nonna e zia, per esempio); tutti vanno a scuola, sono seguiti e, a partire dai 14 anni, collaborano alle faccende domestiche.

La Maison e i suoi abitanti si mantengono grazie ai proventi del turismo responsabile, a contributi privati, alle adozioni a distanza, e, in parte, anche grazie ai ricavi del piccolo ristorante. Dice Flavio: “A volte i sogni si realizzano. Ho cominciato a fare volontariato in Benin diversi anni fa e, durante uno di questi viaggi, ho incontrato Thérèse, che ora è mia moglie. Nel frattempo anche l’amica del cuore di Thérèse, Justine, si sposava con il suo compagno Christian e ho cominciato a conoscere il Benin sul serio insieme a loro. Quando si sono trasferiti a Ouidah, ho trovato la città dei miei sogni e ho deciso che lì avrei costruito casa. Una grande casa, con tante camere e tanto spazio, per ospitare Justine, Christian e i loro cinque figli.

Ben presto la casa ha cominciato a riempirsi di altri bambini bisognosi e di madri in difficoltà: era nata una comunità. Al momento di battezzare la casa, come si usa in Africa, non ho avuto dubbi: era come se già avesse un nome, la Casa della Gioia, la Maison de la Joie, il luogo dove almeno qualche bambino può ritrovare il sorriso”.

 

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